Can Can: The Lost Tapes
Una serie importante di ritrovamenti postumi che avevano sufficientemente irrorato le vicissitudini del kraut combo di Colonia c’era già stata: da alcune registrazioni del 1968 in cui si fregiavano ancora del nome Inner Space Productions, apparse nel 2009, alla loro prima esibizione live del giugno 1968, che ha dato vita al celeberrimo e indispensabile “Prehistoric Future” (1984), fino a “Delay 1968” apparso nel 1981 e volendo tralasciare la sfilza di raccolte, compilation, Peel Session e tributi vari (Michael Karoli ci lascerà nel 2001). Potrei invece parlare della mia forte paura di ritrovare in questi demo le loro divagazioni lounge, l’accademico funk che spesso permeava e scoloriva le loro proverbiali improvvisazioni e che forse ci è stato restituito troppo indiscriminatamente, o meglio a svantaggio del dovuto rispetto ideologico e iconografico della band e a vantaggio della speculazione di marketing spremuta fino al midollo. Benedico invece questi nastri e la maestria di chi li ha assemblati (Irmin Schmidt, pianista e membro fondatore, il suo collaboratore Jono Podmore e il boss della Mute Daniel Miller) poiché ci restituiscono abbozzi onirici e dilatati dei Can più intensi, più ispirati, più intuitivi e più autenticamente free form.
Una serie di istantanee dai contorni lacerati e consunti, con i colori sfocati della psichedelia e dell’elettronica più raffinata, quella che sfuma e amalgama le linee di confine restituendo pura materia tattile e sensoriale, ensemble ipnotico, collage che diventa omogeneo nel suo fluido mutare. Ultimati i festeggiamenti per il quarantennale di "Tago Mago" nel 2011, il disco ‘aspersore per eccellenza’ di tutte le influenze e le contaminazioni di cui si fregia il rock universale post 1971: Holger Czukay (basso), Michael Karoli (chitarra), Jaki Liebezeit (batteria), Irmin Schmidt (tastiere) e, alternativamente i due cantanti storici, Malcolm Mooney e Damo Suzuki ci vengono ancora una volta, come meteore sfolgoranti, restituiti dalle amenità spaziali. Ancora una volta dobbiamo arrenderci all’evidenza che il loro caratteristico approccio preistorico è quello che meglio di tutti penetra lo scibile del futuro. Il primo CD si apre con un pezzo a dir poco sconvolgente, Milionenspiel che ci riconsegna l’impatto di pura energia alchemica liberata dai Can: graffiate incontenibili di chitarra acida, una batteria metronomica che sfodera la grandezza ineguagliata di Liebezeit e poi una fusione prodigiosa tra flauto, tromba, tribalismi, basso e una serie di rumori campionati e assemblati con un’arte del suono che è pura genialità estetica e sensoriale.
Waiting for the Streetcar ci riporta l’ossessione mantrica della peculiare voce di Mooney, fragile e funkeggiante, smarrita e avvolgente. Si deve ritornare alla Mother Sky di “Soundracks” per riuscire a ricollegarsi a simili punte di godimento. Ma la vetrina del divertissement et memorabilia continua senza sosta, proponendo di volta in volta una serie di intuizioni e giochi cromatici da lasciarci allibiti. Meraviglie senza tempo, assemblaggi ottenuti frantumando bicchieri, giocando con molle, maracas fai da te, rubinetti aperti, macchine da scrivere, riverberi, venti siderali, scricchiolii, droni e atonalità. Tutto si scompone e si riplasma in un’elettronica e in uno sperimentalismo seminale che sa di antropologia e radici ma mai di passatismo. Qualcosa di pensato, qualcosa che conserva un’impronta profondamente e sublimemente umana. Schmidt - è bene precisarlo alle nuove generazioni - non ha mai fatto uso di sintetizzatore moog ma manipolava in modo del tutto personale e mai del tutto svelato le sue tastiere, conferendogli suoni riverberati e marziali. Ma la forza dei Can è quella di non rimanere mai asettici e freddi, incomunicativi o velleitari. Certo talvolta troppo meticolosi, troppo perfetti nella loro assuefazione maniacale alla ricerca, ma qui no, in questi nastri perduti c’è tanta essenza e poco artifizio.
Deadly Doris ci anticipa la giocosità psichedelica e dadaista dei Gong, When Darkness comes e Godzilla Fragment sospese tra straniazione Tangerine Dream, esoterismo Hawkwind, spazialità Amon Düül. Midnight Sky ha in sè la confusione estrosa beefheartiana e le chitarre hendrixiane. Il noise ambient dell'eterea Private Nocturnal. Poi ci sono i due gioielli live Spoon e Mushroom, la prima allucinata e abrasiva, meno orientaleggiante e meno rifinita rispetto alla versione di "Ege Bamyasi" ma di certo non meno emozionale, una galoppata schizofrenica di oltre sedici minuti, una sfida tra drum machine e precisione e velocità di un batterista che è più alieno di una macchina; la seconda evanescente, dilatata all'inverosimile con una ritmica da brivido e i soliti intarsi rumoristi capaci di lacerare e sfumare, atterrire e stordire, spiazzare e percuotere l'ascoltatore. Un viaggio che non concede ritorno, che ci riconsegna un gruppo fresco e attualissimo, che ci cattura in spire di tensione emotiva implacabili. Anche negli episodi mordi e fuggi, piccoli inserti bucolici di classe e delicatezza, fragili quanto steli di cristallo sottilissimi, capaci di restituire giochi di luce sorprendenti (Alice, Oscura Primavera, The Loop, E.F.S. 108). E poi, se proprio volete inorridire di fronte alla maestria provate ad ascoltare Messer, Scissor, Fork and Ligh ... Non aggiungo altro, correte a procurarvi questo preziosissimo cofanetto!
Tracklist:
CD1:
01 -- Millionspiel
02 -- Waiting for the streetcar
03 -- Evening all day
04 -- Deadly Doris
05 -- Graublau
06 -- When darkness comes
07 -- Blind mirror surf
08 -- Obscura primavera
09 -- Bubble rap
CD2:
01 -- Your friendly neighboughood whore
02 -- True story
03 -- The agreement
04 -- Midnight sky
05 -- Desert
06 -- Spoon -- Live
07 -- Dead Pigeon Suite
08 -- Abra cada braxas
09 -- A swan is born
10 -- The loop
CD3:
01 -- Godzilla Fragment
02 -- On the way to Mother Sky
03 -- Midnight Men
04 -- Networks of Foam
05 -- Messer scissors fork and light
06 -- Barnacles
07 -- E.F.S. 108
08 -- Private Nocturnal
09 -- Alice
10 -- Mushroom – Live
11 -- One More Saturday Night – Live
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