Winterage THE HARMONIC PASSAGE
La moda dell’album con l’orchestra era stata un vero e proprio “boom” negli anni ’70, mietendo proseliti soprattutto nel campo del progressive rock (Renaissance, Caravan, Barclay James Harvest, Pink Floyd, solo per citare alcuni esempi) e dell’hard rock (il “Concerto for group and orchestra” dei Deep Purple e “Salisbury” degli Uriah Heep); anche gli italiani, dagli Osanna ai New Trolls, non erano rimasti esenti da questa ricerca di commistioni elettriche e sinfoniche. All’alba del nuovo millennio alcuni nomi-simbolo del metal, come Metallica e Dream Theater, sono tornati a esplorare questa soluzione ma, obiettivamente, sembrava una formula un po’ caduta in disuso. Probabilmente da imputare come primo colpevole della morte del rock con orchestra è il costo che un’operazione di questo tipo ha. Sono quindi doppiamente da elogiare i genovesi Winterage, non solo per l’ottima riuscita di questo loro album di metal sinfonico e orchestrale, ma anche per il coraggio dimostrato nell’imbarcarsi in un progetto così complesso in un periodo di crisi economica e culturale come quello che stiamo vivendo, e con tutte le difficoltà che attraversa il mondo musicale indipendente.
Dopo un’apertura affidata a una Ouverture in Do minore densa di influenze operistiche, di reminiscenze del barocco di Vivaldi e (perché no?) anche del “Concerto Grosso” di newtrollsiana memoria (dopo tutto la città di provenienza è la stessa!), ecco esplodere in tutta la sua irruenza la band vera e propria, guidata dal violinista Gabriele Boschi (che ha curato anche la stesura di tutte le partiture orchestrali) e completata da Daniele Barbarossa (voce), Davide Bartoli (batteria), Dario Gisotti (tastiere), Riccardo Gisotti (chitarra) e Matteo Raganini (basso). Accanto a loro, una quarantina di musicisti tra archi, legni, ottoni, voci rock, coro classico, arpa, clavicembalo. Il sound che ne scaturisce è inequivocabilmente marchiato dalle “cavalcate” del power-metal, ma nei momenti in cui gli accenti si spostano in modo più imprevedibile, come ad esempio dal quarto minuto in poi di The flame shall not fade, il tutto “vola” nettamente su coordinate maggiormente legate al progressive rock.
I testi risulteranno particolarmente godibili per gli intenditori di letteratura e filmografia fantasy anche se, a onor del vero, un sound così attuale ed energico si esprime al meglio in contesti anglofoni e, pertanto, tra le varie tracce gli episodi incisi in lingua inglese risultano avere più mordente rispetto a quelli in italiano. L’album è prodotto con una qualità sonora decisamente inaspettata per essere una pubblicazione italiana indipendente, i brani scorrono uno dopo l’altro con una fluidità ineccepibile e senza un attimo di noia o cedimento, la tecnica esecutiva di tutti è perfetta, così come l’amalgama con l’orchestra e la qualità grafica del booklet è davvero bella. Insomma, se i Winterage anziché nascere all’ombra della lanterna di Genova fossero emersi dalle nebbie di qualche glaciale villaggio scandinavo, oggi sarebbero lanciati a livello mondiale come “the next big thing”. Speriamo solo che riescano a uscire come meritano dai nostri confini e che i palesi limiti del mercato italiano non affossino un progetto così bello.
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