The War On Drugs 18 Novembre 2017, Milano, Fabrique
L’ascesa dei War On Drugs nell’olimpo fluorescente dell’indie rock è stata tra le più trionfali e folgoranti: merito di una formula capace di traghettare la sacra triade del rock a Stelle&Strisce (Dylan-Young-Springsteen) in un oceanico post-folk per grandi spazi aperti, sintesi di antico (lunghi brani basati sugli assoli di un virtuoso) e moderno (una cura dei suoni nettamente preponderante sulla personalità compositiva) che azzarda per l’ennesima volta la rifondazione di un’epica per giovani uomini smarriti. La loro tangibile maturazione in studio (culminata nell’ultimissimo “A Deeper Understanding”, senz’altro tra i dischi-evento dell’anno) non può che accendere le attese sulla loro resa live, fattore non trascurabile per una band che si propone di raccogliere la sacra torcia dei grandi sciamani dell’arena-rock. In un Fabrique (unica data italiana) claustrofobicamente traboccante di corpi ammassati, Adam Granduciel (foto a destra) & co. si materializzano sul palco con una puntualità inquietante, in un tripudio di fari gelatinati e loop atmosferici. Lo scalmanato pubblico che li accoglie appare pericolosamente più prossimo ad una curva da stadio che ad una platea di rock “alternativo”: l’incommensurabile fastidio che ci ispira, complice anche l’arrivo trafelato dopo una giornata spossante (perdendoci, tra l’altro, il gruppo spalla) contribuirà, forse, a non metterci nella giusta disposizione per fruire il concerto.
A rompere il ghiaccio provvede In Chains, dominata da un ipnotico pianoforte, dilatata oltre il dovuto ed eseguita un pò in sordina, come se non fossero del tutto a loro agio, nonostante l’energica impennata corale e il suggestivo sbuffo di armonica nel finale. L’heartland rurale di Baby Missiles inverte subito la marcia, razzolando in un rockabilly metanfetaminico che apre la strada ad una Pain sofferta ma anche un pò opaca, con il frontman poco ispirato nella coda chitarristica. An Ocean Between The Waves consiste fondamentalmente in un lunghissimo crescendo, che sembra decollare all’infinito come un flanger impazzito, laddove Stranger Thing vorrebbe e dovrebbe giocare con una giustapposizione vuoto/pieno ma è imbrigliata da un bilanciamento dei suoni alquanto infelice, che sprofonda nel mix i pur sentiti interventi solisti del leader. Meglio Knocked Down, lirica e notturna, specie nella prima porzione da perfetta ballad americana. Nothing To Find riprende il galoppo all’impazzata prima di atterrare su Buenos Aires Beach, rara concessione dal primissimo repertorio, in cui Granduciel abbandona l’elettrica (finora si è destreggiato con una Gretch, una Les Paul, una Jazzmaster e una Stratocaster: tutto sommato neanche troppe, calcolando la vanità dello strumentista) per abbracciare una dodici corde che proietta il brano sulla luna. E’ quasi un peccato che subito dopo si torni a picchiare duro con Red Eyes, anthem del gruppo suonato con tanto maschio vigore da risultare un po’ cafone. A fine brano, in un improvviso impeto di loquacità, Granduciel saluta il pubblico e ringrazia la band di apertura, per poi immergersi in quella che rimane la sua composizione più riuscita: Thinking Of A Place si conferma una deriva astrale di grande fascino, elegantemente celata in una soffice bruma sintetica con tocchi di piano elettrico e fretless bass che non guastano affatto. Azzeccata la scelta di tenere le luci basse, dando corpo al buio appena rischiarato che abita la canzone.
Holding On ci sveglia bruscamente con il suo tonico tambureggiare, poi sedato dai chiaroscuri ipnagogici di Lost In The Dream, in cui fa di nuovo capolino una sconsolata armonica. Ma è al brano seguente, forse il più atteso dai fan, che va tutta l’attenzione, quantomeno perché esemplifica bene ciò che non funziona in questo concerto: introdotta da un retorico tira&molla di accenni ruffiani, Under The Pressure ci viene scaraventata addosso con un’enfasi un pò fuori luogo, pompata all’inverosimile dalla sferza imbizzarrita del batterista (una sorta di Lester Bangs sotto steroidi), così adrenalinica che la più ponderata In Reverse, agganciata al volo in un medley programmaticamente piazzato a fine set, passa quasi inosservata. I bis non si fanno attendere e sono meno scontati del previsto, tra i paesaggi mossi di Burning e il colpo di coda finale di You Don’t Have To Go, meditazione della buonanotte tratteggiata con soffusa classe.
L’impressione generale è che l’accanimento da laboratorio nell’edificare il perfetto wall of sound, senz’altro magnifico su disco, abbia portato i Nostri a perdere contatto con il pubblico, concependo le esibizioni dal vivo come un mero megafono per la loro superomistica ricerca di Assoluto, anziché come un ulteriore momento di incontro ed esplorazione. La formazione, fin troppo allargata (in alcuni brani si arrivano a sovrapporre ben tre tastiere, per lo più superflue), tende ad essere poco dinamica, e nel preferire l’assalto continuativo alla sinusoide emotiva appiattisce enormemente il repertorio, che pare riprodotto da un registratore più che eseguito in tempo reale. I suoni, pilotati da una batteria assordante e ‘triggerata’ in maniera quasi insopportabile, ammiccano agli anni ’80 quanto le strutture armoniche dei brani rimandano invece al decennio precedente, il che vuol dire che la potenza è garantita ma anche che tutti brani si somigliano, e ad essere percepito sia un raggio laser continuo e indistinto. Il silenzio è bandito: gli intermezzi ambient che riempiono i vuoti tra una canzone e l’altra finiscono per stordire più che rilassare. E la stessa scaletta, a riguardarla sulla carta, pare perfettibile.
Dal canto suo Granduciel, sempre più conteso tra i propri fantasmi (nella vita privata lotta a denti stretti con problemi di panico e paranoia aggravati dal successo che sta riscuotendo) e una megalomania ormai fuori controllo, si candida ad essere il frontman più distaccato della sua generazione, avendo incorporato solo il peggio dai suoi tre maestri: il testosterone dal volto umano di Springsteen (nella direzione della band), l’autismo logorroico di Young (negli assoli, per lo più eseguiti dando le spalle alla platea, comunque meno esasperanti di quanto ci si sarebbe potuto aspettare), la freddezza scostante di Dylan (nel modo di cantare e di stare sul palco). Molto poco convincente, poi, la resa acustica, con la chitarra del leader che fatica ad emergere nella gran messe di strumenti ed effetti: la colpa va spartita alla pari tra la scarsa attenzione dei fonici e la pretesa della band di tenere insieme un mosaico eccessivamente ed inutilmente roboante. Nel complesso meglio le ballate, più ariose e composite, rispetto alle rintronanti cavalcate elettriche-elettroniche, in odor di birra economica più che di droghe sintetiche. L’intenzione di fondo sembrerebbe quella di far suonare il concerto come il disco (punto di vista pop) e offrire al pubblico un’esperienza forte (punto di vista rock), ma l’esito disattende tutte e due le prospettive. Si finisce di essere epici quando si inizia a diventare magniloquenti.
Infine, è ancora una volta il comportamento del pubblico, indicatore da tenere sempre in considerazione, a darci il termometro della serata: se i fan della prima ora dimostrano di aver assimilato alla perfezione i dettami del concertone tamarro, tra spintoni e cori ululanti, i semplici curiosi si limitano a non ascoltare, chiacchierando ad alta voce e guardando altrove, con la musica declassata ad anonimo sottofondo. Un’accoppiata che non promette nulla di buono. Siamo di fronte all’ennesimo caso di invecchiamento precoce per calzare a tutti i costi un ruolo cucito da altri (la cosiddetta “Arcade Fire syndrome”)? Aveva ragione il perfido Mark Kozelek ad etichettarli come “beer commercial rock”? I paladini della nuova spiritualità rock si stanno trasformando in dei bolsi e nemmeno troppo convinti intrattenitori nazionalpopolari? Vogliamo ancora concedere il beneficio del dubbio ad una band la cui produzione abbiamo apprezzato in maniera crescente negli anni, e che speriamo non si sia già fatta rovinare dalla mediocrità di un pubblico che, a questo punto, fa bene a non rispettare.
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