Suuns-Jerusalem in my Heart SUUNS AND JERUSALEM IN MY HEART
[Uscita: 14/04/2015]
Canada-Libano #consigliatodadistorsioni
La band canadese indie shoegaze dei Suuns (Ben Shamie, Max Henry, Liam O’Neill, Joseph Yarmush) incontra il genio creativo Radwan Ghazi Moumneh, in arte Jerusalem in my Heart, musicista libanese e originale sperimentatore ambient drone (foto sotto a destra). Ne risulta un ibrido atipico e sorprendente, capace di miscelare le rispettive estetiche in un suono stratificato e godibile, in grado di mettere a fuoco tanto i rimandi di world mediorientale che le evanescenze sonore manipolate elettronicamente. Si viene così a creare un flusso armonico e sensoriale che trascina e rapisce in un percorso delicatamente variegato.
I sette pezzi che compongono l’album rapiscono fin da subito con i loro dosaggi atmosferici e melodici. Si parte da costruzioni cerebrali che si evolvono attraverso passaggi rocamboleschi e coinvolgenti crescendo strumentali ma il prodigio più inatteso è la frenesia e l’intreccio delle cavalcate soniche che si scompongono e si amalgamano in sentori spaziali e stranianti (rimandi tangibili al kraut rock) e in ritmi arabeggianti. La traiettoria dinamica di questo alternarsi è forse l’autentico elemento innovativo di questo lavoro. C’è scomposizione e interscambio ma non c’è prevaricazione. Le rispettive sonorità rimangono sempre perfettamente configurate e strutturate nelle loro peculiarità ma si intrecciano, si lambiscono, si innalzano in maestose progressioni psichedeliche complici e ammiccanti. 2Amoutu 17Tirakan apre con scie distorte di droni che si intersecano e collidono per poi aleggiare in un galleggiamento cosmico e ricadere in forma di scintillanti contrappunti cromatici.
Metal ha un andamento di battiti incalzanti e una sezione ritmica poderosa, si eleva in un alt pop orecchiabile ma niente affatto banale, con le sue screziature noise e i feedback densi e vorticosi. La musicalità è un richiamo esplicito alla ritualità popolare, alla vivacità del meltin’ pot interculturale che trasuda nella caleidoscopica Self, una electro dance decisamente attinente alle atmosfere del Maghreb. Richiamo che si ravvisa anche nelle scansioni più sintetiche di ripetitività e manipolazione elettronica.
Le ritmiche non appaiono mai fredde e altere ma si rivestono di tocchi eclettici ben equilibrati tra il gioco sperimentale, le policromie etniche, un vago richiamo alla tradizione e l’ausilio della tecnologia. Il trip hop di In Touch coniuga in maniera sublime l’eredità del malinconico derivante dal post rock e il malinconico culturale dell’attuale smarrimento identitario. Ma non si respira tristezza o cupezza in questi flashback cinematici. Il riff montante di 3attam Babey trascolora in un mood etereo con voce e arpeggi di buzuk per poi fondersi a freddo con vapori psichedelici e interferenze lo fi. La sensazione prevalente è quella di armonia (Gazelles In Flight), accostamento rispettoso, soave evasione (Leyla). Il modo più credibile e entusiasmante di prendere dal passato e di guardare al futuro.
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