Little Feat ROOSTER RAG
[Uscita: 26/06/2012]
Ho conosciuto i Little Feat grazie alla recensione del mirabolante “Waiting For Columbus” letta nelle ultime pagine di un mensile di alta fedeltà che si chiamava Stereoplay. Era il 1978 e allora l'hi-fi era di gran moda, almeno tra chi, come me, spendeva buona parte dei propri scarsi averi in musica. La recensione era entusiastica, sia dal punto di vista musicale che da quello della fedeltà dei suoni. L'accoppiata rendeva assolutamente irrinunciabile l'acquisto dell'oneroso doppio LP e la curiosità era acuita dal fatto che dalle nostre radio, allora unico mezzo di diffusione delle novità musicali, di questi fantomatici americani non usciva manco una nota, anzi non venivano nemmeno menzionati. D'altronde, erano gli anni d'oro del punk, la radio sputava Pistols e Police a palla, ma io non riuscivo ancora a capire quei fracassoni coi giubbotti neri e le facce incazzose. Sbagliavo, ovviamente, ma ho espiato, lo giuro.
Ma torniamo ai Little Feat: appena atterrato sul pesante piatto del mio Thorens, quel disco ci si è incollato per settimane intere, trasferendosi poi sulle immancabili cassette che mi accompagnavano in macchina. Da allora, per anni, ogni vacanza collettiva con i miei accoliti è iniziata con l'ascolto di “Waiting For Columbus”, come una specie di rito propiziatorio irrinunciabile. Tutta 'sta pugnetta per chiarire che io dei Feats sono un irriducibile fan. Non per questo sarei indulgente con loro se questo “Rooster Rag” fosse una porcata solenne. In fondo potrebbe capitare a un gruppo di veterani sulla breccia dal 1969, falcidiati prima dall'abbandono e poi dalla tragica morte (annunciata, purtroppo) del grande Lowell George, voce e chitarra slide oltre che fondatore del gruppo, nell'ormai lontano 1979; e nel 2010, dall'altrettanto tragica morte per malattia di un altro dei membri fondatori, il batterista Richie Hayward. Dediti negli ultimi due decenni ad un'attività live di successo, ma irrimediabilmente di tipo revivalistico, in cui l'ultimo disco di materiale originale, il mediocre “Let It Roll”, risale al 2003.
Beh, allora, no. Questo disco non è affatto una porcata solenne. Anzi, è un ascolto piacevole, con dentro tutti gli ingredienti che hanno fatto la storia e la gloria dei Feats, il blues, il country, il funk, la voglia di far casino sull'aia della title track e la tristezza di Church Falling Down, la chitarra di Paul Barrere e i fiati in One Breath At A Time e il piano boogie di Bill Payne in Just A Fever. Ci sono anche due covers, due vecchi blues, Candy Man Blues, di Mississippi John Hurt e Mellow Down Easy, di Willie Dixon, funkeggiati nel tipico gumbo littlefeatiano. Certo, non c'è il povero Lowell George a raccontarci del grassone nella vasca da bagno (Fat Man In The Bathtub, un vero inno...), e neanche il vecchio Richie Hayward a picchiare sui tamburi, ma 'sti vecchietti hanno ancora tanta voglia di suonare e di farci muovere il sedere.
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