Delvon Lamarr Organ Trio CLOSE BUT NO CIGAR
[Uscita: 02/03/2018]
Stati Uniti
La più classica delle formazioni? Chitarra, basso e batteria. Ora immaginate che il bassista non sia necessario, sostituito dalle possibilità concesse da Sua Maestà l’Organo Hammond B-3, che arricchisce la gamma dei suoni aggiungendo la sua voce inconfondibile a una chitarra e una batteria funky-soul: piace l’idea? Bene: è esattamente ciò che troverete nell’opera prima di Delvon Lamarr Organ Trio, combo scaturito da un’idea della moglie/manager del titolare della sigla, stanca del peregrinare del consorte da una band all’altra senza ottenere la visibilità che avrebbe meritato, avendo i numeri per essere protagonista in proprio sia come strumentista che in qualità di autore. Reclutato senza difficoltà il batterista David McGraw (unico bianco del terzetto), la ricerca del giusto “sound” chitarristico si è rivelata più travagliata, ma nel 2016 l’arrivo di Jimmy James e un ingaggio fisso (Tuesday Night With Delvon Lamarr Organ Trio), hanno reso possibile forgiare il groove adatto e sviluppare sufficiente personalità per sentirsi pronti ad entrare in sala d’incisione per mettere mano a questo “Close But No Cigar”, oggi ripubblicato su scala internazionale dalla Colemine Records di Terry Cole, dopo l’uscita che veniva distribuita privatamente due anni or sono.
Con un approccio più funky-soul (si direbbe “meno bianco”) rispetto all’acid jazz di concorrenti quali ad esempio i britannici James Taylor Quartet (che, oltre ad annoverare un quarto elemento al basso, aggiungono spesso alla propria proposta una vivace sezione fiati), Lamarr e soci mettono subito le carte in tavola con l’introduttiva Concussion e l’esplicativa sin dal titolo (di radici e ascendenze artistiche) Little Booker T, alle quali fa seguito Ain’t It Funky Now: tre brani, tre modi d’intendere il genere e mettere l’ascoltatore a proprio agio nel godersi un disco che, trattandosi di musica esclusivamente strumentale, potrebbe generare qualche perplessità. In realtà risulta sufficientemente vario per non cadere nella trappola del tedio che spesso imprigiona queste produzioni. Con qualche accenno di jazz (la title track) o di southern soul (Memphis, Al Greenery: ben chiari i riferimenti artistici nei titoli), l’album fila che è un piacere sino alla fine, purtroppo affidata a una rilettura di Walk On By che non riceve giustizia (peccato, perché se avessero inserito la Move On Up che gira in rete sarebbe stato un più degno congedo) e che fa intuire quanto il Trio avrebbe necessità di allargare l’organico o diventare la backing band di un cantante: questa volta il risultato è più che dignitoso, ma potranno ripetersi a questi livelli?