Perfect Days Wim Wenders
Regia di Wim Wenders, con Kôji Yakusho,Tokio Emoto, Arisa Nakano, Aoi Yamada, Yumi Asô. Genere Drammatico, - Giappone, Germania, 2023, durata 123 minuti. Uscita cinema giovedì 4 gennaio 2024 distribuito da Lucky Red.
Le giornate perfette di Wim Wenders, una delicata ode alla semplicità che spiazza la frenesia occidentale. “Perfect Days” è un tipico film di Wim Wenders. Hirayama è un tipico personaggio di Wim Wenders. Probabilmente, lo sguardo del protagonista sul mondo racconta gli ultimi approdi poetici di un autore giunto alla soglia delle ottanta primavere. È trascorso mezzo secolo dalla trilogia della strada. “Alice Nelle Città”, “Falso Movimento”, “Nel Corso Del Tempo”: tre pellegrinaggi nell’inquietudine della gioventù tedesca degli anni Settanta, tre importanti firme in calce al Manifesto di Oberhausen, tre storie che definiscono lo stile wendersiano.
Il viaggio come elemento centrale: non importa la destinazione, né quello che viene lasciato alle spalle. Contano unicamente le piccole e grandi scosse interiori avvertite a ogni tappa del percorso. I protagonisti degli storici itinerari wendersiani sono viaggiatori solitari: fuggono da qualcosa di indefinito, dalla noia moraviana, dal senso di inadeguatezza verso un mondo cui non sentono di appartenere. Percepiscono la necessità di un continuo movimento, della scoperta di ciò che si trova oltre i confini dell’ignoto. Consentono l’accesso nel loro microcosmo a qualche compagno di viaggio, e riescono a stabilire delle connessioni che arricchiscono la strada da percorrere. Il viaggio culmina nell’acquisizione di una nuova consapevolezza del sé e di ciò che sta intorno, anche se – nella maggior parte dei casi – non modifica la condizione di solitario alla perenne ricerca di una collocazione. La sceneggiatura è minimalista, i dialoghi sono essenziali, l’impatto visivo è preponderante e viene accompagnato da numerosi omaggi alla musica e all’arte in genere. Hirayama rappresenta, forse, la proiezione adulta dei trentenni che, in un’altra epoca, hanno imboccato le strade del fortunato trittico (e dell’indimenticabile Travis nel deserto di “Paris, Texas”). Il suo movimento è circoscritto all’interno della metropoli in cui vive, e che riscopre ogni giorno a bordo del suo piccolo van. È un uomo in fuga da una vita precedente non ritagliata sul suo corpo, ma sembra aver raggiunto un equilibrio interiore che non necessita di ulteriori sussulti. Inguaribile solitario, riesce ad apprezzare la sua quotidianità con gesti semplici, attribuendo valore alle piccole cose che la vita gli offre. Non è dato sapere se la routine di Hirayama rappresenti la conclusione di un lungo pellegrinaggio, ma – apparentemente - ha trovato la sua ubicazione. La consapevolezza del sé ottenuta risiede nel concetto di sottrazione, nell’eliminazione del superfluo che talvolta la società impone, e che rischia di inquinare la sua essenza. Le giornate perfette del protagonista si sostanziano in un eterno ritorno felice. Le repliche della quotidianità standard del protagonista offrono al pubblico svariati scorci di Tokyo, l’affascinante capitale nipponica cui Wim Wenders è particolarmente legato.
La città che ha dato i natali, biologici e artistici, al maestro Yasujiro Ozu, verso il quale il cineasta tedesco nutre da sempre un’incommensurabile venerazione. Wenders non ha mai conosciuto Ozu - scomparso prematuramente nel 1963 - e decide di intraprendere un viaggio alla ricerca di quel che rimane della sua guida artistica: nel 1984 si reca in Giappone per girare il documentario “Tokyo-Ga”. Scopre con amarezza che la Tokyo di Ozu non è sopravvissuta al compianto regista. Le tappe dell’occidentalizzazione preconizzate in molte pellicole incalzano senza soluzione di continuità, l’alienazione travestita da progresso svilisce l’anima della città (quel “nulla” scolpito sulla lapide dell’artista nipponico). È difficile trovare i bar dove i personaggi ozuiani si ritrovano ad affogare nel sakè i sintomi di un inesorabile decadimento, oscurati dalle pompose e frastornanti sale da gioco. Ozu, il padre indiscusso dei drammi familiari, viene omaggiato apertamente anche in “Perfect Days”: Hirayama, proprio come il protagonista de “Il Gusto Del Sakè”, ultima fatica del maestro orientale. E, forse, l’Hirayama wendersiano è un personaggio speculare ai capi famiglia raccontati nelle opere di Ozu: come questi ultimi, si sente impotente di fronte ai cambiamenti che frantumano i valori tradizionali, alieno nei confronti delle dinamiche moderne. Anche qui, reagisce per sottrazione, negando il mito della prospettiva, rinunciando alla costituzione di un nucleo famigliare destinato all’implosione, di rapporti fagocitati dalle nuvole dell’incomunicabilità. Per lui, la rimozione è l’unico metodo efficace per affrontare un mondo che corre a velocità troppo elevate. E così, al bancone di un bar, davanti a un bicchiere di sakè, vive soltanto momenti di trascurabile serenità. Un’esistenza all’insegna del “qui e ora”: il fondamentale principio Zen che favorisce un armonioso contatto con il reale.
In questo modo, un lavoro come operatore ecologico, considerato dai più poco gratificante, può riempire di vibrazioni positive la giornata. I bagni pubblici di Tokyo sono veri e propri templi, progettati dalla archistar per servire la collettività: dedicarsi meticolosamente alla pulizia di tali ambienti può rappresentare un apprezzabile strumento di apertura verso il prossimo, una positiva fonte di connessione con l’ambiente. Ma è davvero possibile vivere come Hirayama? Condurre un’esistenza monotona, scevra di progetti che rischiano di alterare il ritmo circadiano, al riparo da pulsioni corporali, con un vuoto relazionale attenuato solo da qualche effimera comparsa? Qualunque spettatore, almeno una volta, si ritrova inevitabilmente a porsi questa domanda. La memoria torna al duro confronto tra il Bruno Winters de “Nel Corso Del Tempo” e il suo compagno di viaggio “Kamikaze”, in quel rifugio abbandonato al confine con l’Ungheria del blocco sovietico. “Niente può accaderti ormai! Sei come morto! Ti è rimasto ancora qualche desiderio?” abbaia “Kamikaze” contro Bruno, apostrofandolo per la presunta rassegnazione ai margini del pianeta. Hirayama, probabilmente – al contrario del suo antesignano, che reagisce con stizza – risponderebbe a tale affermazione con un serafico sorriso, consapevole di appartenere a un cosmo ammantato da un’aura di inacessibilità, e di esserne lieto. Sempre pronto a tendere la mano a chi desidera conoscere i suoi confini, pur limitandosi ad osservare. Sì, una vita come quella di Hirayama è possibile per chi riesce a superare qualche schema predigerito. E proprio il senso di spaesamento che cagiona in coloro che sono avvezzi a leggere la vita come un perpetuo inseguimento ne accresce il valore. Il netturbino sessantenne, con il suo basilare equilibrio, può assurgere a punto di riferimento per le persone che si imbattono lui. E può suscitare qualche lampo di invidia positiva negli habitués dei campi di battaglia. Chissà cosa proverebbe Kanji Watanabe, l’uomo al capolinea del “Vivere” di Akira Kurosawa, se avesse ancora una possibilità di fermarsi ad ammirare la luce che filtra dagli alberi. Il lungo primo piano finale, che da solo vale il prezzo del biglietto (e una grande fetta della carriera Kōji Yakusho, giustamente premiato a Cannes), esprime la gratitudine del protagonista per il semplice fatto di essere al mondo, e poter godere delle emozioni che nascono di fronte a un tramonto. La struggente alternanza tra sorriso e commozione potrebbe denotare anche un senso di mestizia per il tempo che sfugge, o di rimpianto per qualcosa che avrebbe potuto essere e non è stato. Ma adesso è adesso, mentre un’altra volta è un’altra volta: i pensieri negativi sulle vite passate e future possono soltanto sfiorare, e non scalfire. La sceneggiatura estremamente asciutta (oltre gli standard tradizionali del regista), invero, rischia di depotenziare leggermente la pellicola. Qualche informazione in più sul background del protagonista, forse, avrebbe arricchito la grammatica dell’opera, a tratti sbilanciata verso un puro e ciclico inno alla semplicità che, alla lunga, può apparire forzato e atto a colpire il pubblico (con particolare riferimento al target occidentale, meno avvezzo alle giornate al ralenti). Ma, in fondo, si tratta dell’opera di un Wim Wenders che inizia a tirare le somme del suo viaggio autoriale. Non importa la storia, è irrilevante la partenza come l’arrivo. Per il cineasta conta solo esserci, ora e qui. E a noi piace così.
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