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2 Marzo 2012

Lucio Dalla Ricordi vivi!


Ho visto Lucio Dalla in concerto quattro volte e in una di esse ebbi anche occasione di scambiare con lui qualche parola.  La prima volta che lo vidi fu in quella famosa edizione del cantagiro del 1971 che in ogni tappa di quella manifestazione itinerante presentava come protagonista un ospite internazionale, terminata funestamente con il risaputo concerto dei Led Zeppelin interrotto da disordini e lacrimogeni della polizia al Vigorelli di Milano. La tappa a cui assistetti io (Albenga SV) vedeva Donovan come ospite internazionale e anche lì, forse per l’aria che tirava all’epoca, vi furono disordini e cariche della polizia; una mia amica ne uscì con braccio rotto, ma mi sembra di ricordare che il concerto andò comunque a termine. Per assistere all’esibizione di Donovan noi giovani “rockettari” dovemmo sorbirci una mezza di dozzina di cantanti italiani tra i quali i Pooh di Tanta voglia di lei e appunto Lucio Dalla. Dell’esibizione di Dalla in quel contesto ricordo un brano che mi colpì profondamente avendo dell’artista solo una conoscenza approssimativa e mediocremente televisiva. Quel brano era Il colonnello contenuto nell’album appena pubblicato “Storie di casa mia” e la performance di Dalla fu, per me che ero già all’epoca dalla parte del torto, fulminante e straordinaria. In quella canzone antimilitarista Lucio Dalla ironizzava sulle guerre, sulle armi e sui militari muovendosi sul palco mimando il passo dell’oca, facendo saluti hitleriani, e indossando teatralmente cappello e mantellina militare e per me fu una rivelazione. 

 

In quel contesto popolar/melodico quel brano era davvero un pugno in faccia alla società dell’epoca e mi segnai in agenda il nome di Dalla come artista da seguire. Passarono due anni prima di rivedere un suo intero concerto: era il momento del bellissimo album scritto con Roberto Roversi “Il giorno aveva cinque teste” e, quello spettacolo fu la conferma di quanto si diceva in giro: il Lucio Dalla televisivo e canzonettaro aveva compiuto una scelta politica e sociale che aveva trasferito in splendide canzoni dai contenuti importanti. Ricordo non più di duecento persone in un locale di Borghetto Santo Spirito (sempre SV) chiamato Il terzo Mondo dove di nuovo in quell’occasione ammirai la classe e la superiorità artistica di quel piccolo uomo barbuto. Poi la cosa si ripetè nel 1975 nella stessa città e nello stesso locale: “Anidride solforosa” era il nuovo ottimo album e lo spettacolo di Dalla si era arricchito di nuova linfa, di teatralità, di rabbia e di nuove prese di posizione; ora era quasi un happening dove l’artista, tra un brano e l’altro, improvvisava, conversava col pubblico (sempre scarsino), invitava al dialogo e raccontava storie di vita vera e vissuta. 

 

Fu in quell’occasione che un branco di buontemponi (per non dire peggio) gli mandarono sul palco quello che chiamerò senza cattiveria “Lo scemo del paese”. Bastarono pochi secondi al musicista bolognese per capire che aveva davanti una mente semplice e ignara della burla che si stava compiendo alle sue spalle e a quelle del musicista stesso. Fu in quel momento che il cantante si lanciò in una magnifica e lunga invettiva, stigmatizzando l’accaduto e cogliendo l’occasione per parlare di umanità, di diversità, (era o non era omosessuale?) di amore e di socialismo nel senso più ampio e nobile di questa parola. Nel dopo concerto lo avvicinai ringraziandolo per lo spettacolo e parlammo per qualche minuto del “decentramento culturale”, per usare una brutta parola in voga allora, che consentiva comunque di godere di situazioni culturali anche lontani dalle grandi città. Dopo ancora un buon disco come “Automobili”, che completava la trilogia della collaborazione con Roberto Roversi, che denotava se non altro un “pensare altro” che non era quello della canzonetta, e il discreto “Come è profondo il mare” cominciò il mio disamore per un uomo al quale un successo di massa cominciava ad arridere fagocitandolo e inserendolo all’interno dell’industria discografica più commerciale. 

 

Nel 1979 decisi di dargli un’ultima possibilità: lo rividi dal vivo nel tour di “Banana Republic” con De Gregori, ma mi resi conto che l’incanto si era spezzato. Il Lucio Dalla che avevo apprezzato e sostenuto ormai era molto lontano (anche fisicamente visto lo stadio di Savona pieno fino all’inverosimile).  E così mi accorsi che come mi avevano commosso gli occupanti di Un’auto targata To stavolta non me ne fregava niente di come potevano fare i marinai. Da quel momento cominciai a non seguire più la vita artistica di un uomo che cominciava a barattare le sue capacità intellettuali, l’intelligenza e l’impegno sociale, con banali avvertimenti di stare attenti ai lupi. Il Lucio Dalla forte, potente e generoso della mia adolescenza non esisteva più, aveva lasciato il posto a quello dei grandi successi nazionali e internazionali (Caruso) che, nonostante la classe, il mestiere e la maturità raggiunta, mi lasciavano e mi lasciano tutt’ora, del tutto indifferente.

 


Maurizio Pupi Bracali
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