Yoko Ono YES, I’M A WITCH TOO
[Uscita: 19/02/2016]
Giappone- Stati Uniti
Se ci avessero predetto che un giorno, più o meno lontano, ci saremmo espressi in termini positivi di Yoko Ono, non l’avremmo creduto possibile. Noi ragazzi di quell’altra (non diciamo quale) generazione avevamo qualche cattiva considerazione della piccola artista giapponese alla quale imputavamo un vero e proprio misfatto: era stata la causa della separazione dei Beatles e non ci pareva proprio che l’avremmo mai perdonata. Ora che sono passati più di quarant’anni, le cose sono cambiate e non solo perché siamo più sereni e le nostre posizioni sono diventate assai più morbide. Molta acqua è passata sotto i ponti e Yoko ha dimostrato di non essere solo la musa di John Lennon né quella che con lui condivideva vita privata ed impegno politico.
Basti pensare a quanto ha rappresentato nel campo delle arti visive con le sue eccentriche installazioni. Ora Yoko Ono ritorna alla ribalta musicale con un nuovo album, costruito con lo stesso criterio del precedente del 2007 -riproposta di pezzi di repertorio rivisitati con varie guest- per ribadire, con buona dose di autoironia, la proprie caratteristiche di donna quanto meno irrequieta: “Yes, I’m a Witch” s’intitolava quello, “Yes, I’m a Witch Too” s’intitola questo.
Cominciamo col dire che non siamo davanti al capolavoro, ma possiamo affermare che nel complesso il nuovo lavoro di Yoko si ascolta con piacere e con una certa soddisfazione. C’è una grande quantità di suoni elettronici, come trattata elettronicamente è spesso la stessa voce dell’artista ottantatreenne (porta l’età magnificamente e nella copertina esibisce anche una scollatura che vorrebbe essere a suo modo generosa).
Nei diciassette brani che costituiscono la lista dell’album, Yoko ha chiamato a raccolta una folta schiera di musicisti, remixer, dj, rock-band, turnisti di varia natura, più o meno noti, ma tutti d’alta scuola: a cominciare da Ron Mael, il tastierista degli Sparks che l’accompagna in Give Me Something, brano nel quale, insieme a sofisticate atmosfere espressionistiche, che parrebbero mutuate dalle pagine di un dramma brechtiano musicato da Kurt Weill, vengono fuori le belle doti espressive ed interpretative della signora Ono.
Ci sono dentro rock band come Death Cab for Cutie, Peter Bjorn and John, Portugal.The Man, Miike Snow (gruppo indie svedese che la sostiene in Catman con effetti spaziali che richiamano alla mente un fumetto della Marvel), il duo delle giapponesine Cibo Matto, dj come il duo italo-americano Blow Up, come Penguin Prison o Danny Tenaglia, persino il figlio Sean Lennon che imbraccia il suo basso per dialogare con la mamma nell’accattivante pezzo intitolato Dogtown. Non manca, inoltre, il riferimento esplicito al suo illustre marito, nelle drammatiche atmosfere di Mrs Lennon e nella coinvolgente No Bed for Beatle John. Yoko passa con disinvoltura attraverso vari stili, dal funky al rock più tradizionale, spingendosi addirittura in territori house, con esisti quasi sempre molto efficaci, dimostrando duttilità e temperamento.
In fondo, a chiudere una scaletta che poco o nulla concede al trendy e non ammicca in maniera ruffiana al pubblico, c’è Hell in Paradise, dove Yoko ha accanto il notissimo Moby in una tirata che, alla lunga, risulta un po’ stancante con i suoi 9:51 di ripetitiva serialità. Brava, Yoko, ormai abbiamo chiarito tutto. Ma, in ogni caso, ti avevamo già perdonato. Forse hai anche dato un contributo personale perché il tuo John e i Beatles entrassero in maniera forte e definitiva nel Mito. Chissà.
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