Stay THE MEAN SOLAR TIMES
[Uscita: 09/02/2016]
Spagna #consigliatodadistorsioni
Di cosa parliamo quando parliamo di pop psichedelico? Dei Beatles più lisergici naturalmente, ma anche dei primissimi Pink Floyd, del Barrett “inacidito”, e, venendo più avanti nel tempo, di quegli XTC che sotto il nome The Dukes of Stratosphere emisero scintillanti faville popedeliche. Questo solo per citare alcune delle influenze che ritroviamo in questo “The mean solar times” dei catalani (di Barcellona) per l’esattezza, Stay. Diciamo subito che quest’album è una ventata di freschezza imprescindibile con le sue melodie accattivanti, i ritornelli assassini e i sibili e le svisate psicopop che convivono amabilmente in un mix vincente davvero straordinario per efficacia e talento. In queste undici canzoni per un’oretta scarsa di musica dove non c’è nulla da scartare, ritroviamo cascate di Hammond, riff di chitarre riverberate, una superba batteria di non eccelsa tecnica ma di elevata potenza, onde sinusoidali di sinth, e persino un sitar ben poco esotico ma funzionale all’assetto della band che sciorina una sequela di brani quasi tutti potenziali hit, (la brevissima You know it’s right, per esempio).
Sotto l’accurata produzione di Owen Morris, già in cabina di regia con Oasis e The Verve, i cinque ragazzi spagnoli, ai quali si aggiunge in tre brani la chitarra di Andy Bell, (Oasis, Beady Eye, Ride), giunti al quinto album, giocano meravigliosamente a fare il verso al miglior pop psichedelico degli anni ’60 (ma non solo) riconducendolo, con sonorità e attitudine modernissime, all’attualità dei nostri giorni. Travolgente è I’m away, lennoniana fino al midollo nonostante il sitar che si addice più a George Harrison, più pacata la ballata semiacustica Hide away che si apre curiosamente a spazi americani, ancora irruenta e trascinante è Dirty and alone, mentre Shake the sun è in perfetto Oasis’s style, e non poteva essere altrimenti visti il produttore e il chitarrista aggiunto.
E non è finita: Last time, che mette in scena una chitarra lancinante, una batteria dalla pesante cassa in quattro e il sinth che sibila e soffia, sembra uscita dal songbook dei Porcupine Tree del felice periodo spazial/pop, mentre i due brani destinati all’uscita su singolo, Pinkman che apre l’album e Smiling faces che vede ancora Andy Bell ospite alla chitarra, sono due gioiellini pop di rara bellezza. A concludere un disco che farebbe innamorare qualsiasi fan dei gruppi citati sopra, la stratosferica ballata psichedelica All in your eyes che tra fremiti di sinth e chitarre wah-wah distorte e laceranti ancora una volta ci conduce in paradisi Porcupine/Wilsoniani, che uniti alle altre piccole gemme disseminate in questo album lo fanno avvicinare non poco al capolavoro.
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