69. Mostra del Cinema di Venezia: Bella addormentata Marco Bellocchio
Il cinema di Marco Bellocchio impressiona sempre per il coraggio, delle storie e soprattutto delle immagini. Bella Addormentata, presentato in concorso alla 69a Mostra del Cinema di Venezia non è da meno, colpisce nel segno e resta impresso nell’anima dello spettatore. Quattro momenti paralleli, scanditi da un’altra storia, collettiva e sentita: la tragica vicenda di Eluana Englaro; e il feroce, e a tratti grottesco, dibattito che scatenò nell’opinione pubblica italiana. Una storia sullo sfondo che fornisce al regista un filo conduttore su cui fondare le sue quattro parabole incastonate al fatto reale. Quattro momenti: uno “politico”, in cui il senatore Uliano Beffardi (nomen-omen, come sempre in Bellocchio, dal vero nome di Lenin, Ulianov), ex socialista ora berlusconiano (interpretato da Toni Servillo), che deve far i conti con la propria coscienza laica davanti ad una legge, quella sul trattamento dei malati terminali, che la propria morale (e la sua vicenda personale) gli impedirebbe di votare.
Un momento “etico”, in cui un medico (Piergiorgio Bellocchio) assiste una tossicodipendente (Maya Sansa) alla disperata ricerca della morte; uno “sentimentale”, in cui la storia d’amore tra un’attivista del movimento per la vita (Alba Rohrwacher), figlia di Beffardi, con un ragazzo (Michele Riondino) dalle idee differenti sembra aprire gli occhi alla ragazza; un momento “sacro” (e “patologico”), in cui una grande attrice (una splendida Isabelle Huppert), ritiratasi dalle scene per assistere la figlia in stato vegetativo, sembra aver perso l’interesse nei confronti del mondo intero, a cominciare dal marito e dal figlio (Tognazzi e Placido). Ma queste etichette sono tra loro intercambiabili, poiché politica, etica, sentimento e sacralità convivono in una visione d’insieme che esamina i problemi, riuscendo a rischiararne le cause ultime, ma soprattutto le contraddizioni prime, con una consapevolezza (prima di tutto cinematografica) davvero notevole.
Bellocchio cesella con la luce le emozioni e gli stati d’animo (complice la magistrale fotografia di Daniele Ciprì), alternando il buio della coscienza alla luce accecante del dato di fatto, della morte, del sonno e del risveglio. Il regista torna ad indagare la religione esplorandone i suoi aspetti più (cinematograficamente) bui e “corporali” (la preghiera errante di Isabelle Huppert) mettendo in scena una teologia del dolore dai toni foschi e mistici, quasi patologici nella loro realizzazione, concludendo (o comunque approfondendo) un discorso che aveva già iniziato agli albori della propria carriera, in un film come Nel nome del padre, e che aveva portato al massimo della sua esemplificazione visiva (e grottesca) ne L’ora di religione (ma anche, in sottofondo, nei momenti “manzoniani” di Il regista di matrimoni). In tal senso è rilevante l’episodio interpretato da Isabelle Huppert, la diva che volle farsi santa, che volle diventare Divina Madre, presa in un cammino mistico, che sull’esempio di Santa Teresa d’Avila e di Sant’Ignazio di Loyola, è fatto innanzitutto di privazione del corpo, di rinuncia ad esso.
Ed è innanzitutto volontà di privazione del corpo attoriale: l’attrice che abbandonato il palcoscenico fatica ad allontanare l’ultimo atto di vanitas, nel guardarsi fugacemente – e ai suoi occhi peccaminosamente – allo specchio. Il cammino della donna è quello di un corpo e di un’anima che vorrebbe passare, forse patologicamente, dalla carne verso lo spirito (santo) assoluto. E non a caso il figlio dell’attrice guarda in televisione un vecchio film della madre (che è La storia vera della Signora delle Camelie, di Mauro Bolognini), ed emblematicamente nella scena in cui la giovane attrice assiste all’uccisione di un vitello e ne beve il sangue. Ma nel film c’è anche spazio per ritrovare vecchie maschere bellocchiane, e in particolare nel personaggio di Pipino, che è in tutto e per tutto una rilettura aggiornata del personaggio di Alessandro, protagonista (interpretato da Lou Castel) de I pugni in tasca; non dimenticando lo “psichiatra del Parlamento” (Roberto Herlitzka), che è quasi un personaggio bellocchiano “archetipico”.
È un film pieno di schermi Bella addormentata, e Bellocchio è un abile manipolatore e contaminatore di media: cinema, TV, cinema-in-TV; le immagini trasmesse sono una finestra, spesso invadente, sul presente dei personaggi, e per noi che guardiamo, sulla storia che sotterraneamente attraversa le vite di tutti i personaggi (la vicenda della Englaro è narrata, infatti, solo attraverso immagini di repertorio, giornalistiche, che entrano nella vicenda attraverso televisori accesi), ma allo stesso tempo sono memoria iconica (la Huppert giovane guardata dal figlio) e collettiva; fino alla deflagrazione dello schermo stesso, dell’immagine della realtà che in due momenti (la scena della foto di gruppo dei politici e quella, grottesca oltre ogni immaginazione cinematografica, della reazione in parlamento alla notizia della morte della Englaro) viene dilatato fino ad invadere l’altro schermo, il fotogramma cinematografico.
La grandezza del film di Bellocchio sta nell’indagare tutte le posizioni, etiche, politiche, personali, senza essere però conciliante o accomodante, evitando così il tanto deprecabile “ecumenismo” – per non dire cerchiobottismo – di un certo cinema italiano “politico” degli ultimi anni, ed evitando allo stesso tempo il film “a tesi”. La sua visione laica, che rimane chiarissima per tutto il film, evita quella retorica delle bandiere che un film come questo, se pensato superficialmente, avrebbe potuto praticare; e il vero bersaglio non è chi la pensa in modo differente, ma il “sonno” della società, una società che trasforma in caso politico un dramma privato, distogliendo lo sguardo da una quotidianità che andrebbe affrontata più “politicamente”, proprio nella sua ordinarietà. Un film sui risvegli, sull’attesa dei risvegli, e sull’impossibilità, in alcuni casi, del risveglio. In questo senso l’episodio interpretato da Piergiorgio Bellocchio e Maya Sansa offre la chiave di lettura del film stesso e della posizione morale del suo autore: riservare la pietas (laica e morale, l’unico sano “accanimento terapeutico”) a chi può ancora (o vuole, in fondo) essere salvato.
Correlati →
Commenti →