AV-K FRACTURE
[Uscita: 02/01/2015]
Seconda uscita davvero sorprendente per il talentuoso artista salernitano Anacleto Vitolo, che dopo il suo esordio in Laverna con l’album “A Centripetal Fugue” e una firma con la prestigiosa Fat Cat, sceglie una piccola produzione, Manyfeetunder, per il suo “Fracture”, segnando di fatto, come preannunciato dal titolo, una nuova ripartenza. Dall’ambient sofisticato del primo lavoro ad una rivalutazione in senso qualitativamente ‘alto’ della sua originaria passione per la techno. Gli ambiti di ripescaggio tengono senz’altro conto della scena di Detroit ma anche dei precursori più illuminati della terra di Albione della Warp Records (elettronica e dark ambient) fino ad arrivare al Ben Frost di “Theory of Machines” (2007). La ricerca sembra rivolgersi verso l’intensità sonora, verso la densità e l’intricante gioco del glitch, in grado di diradare e comprimere, nebulizzare, stratificare e forgiare morfologicamente la struttura complessiva, l’intera impalcatura sinusoidale. Prx/dlt ha un battito techno ossessivo e attutito, sa di tribale e alieno nello stesso momento. Il groove è una propulsione che si espande per saturazione. L’elettronica di 2 ha un’anima oscura e sintetica, sembrano segnali disperati dopo un’apocalisse, dopo una devastazione nucleare. Molto bello il gioco di sospensione e la ripresa tematica e intervallata di schemi timbrici variati in frequenza.
La suite omonima Fracture è un amalgama riassuntivo e raccontato in crescendo della concettualità di tutto il disco. Davvero un brano strutturato, pensato e sviluppato da un ingegnere del suono. Si apre con una serie di impulsi ottenuti attraverso la tecnica del glitch e si fa strada attraverso una serie di droni abrasivi e distorti che tracciano atmosfere cupe e stranianti, a tratti quasi repellenti. Intorno al quarto minuto prende largo il techno beat che lega la serie di sferzate elettroniche che via via si propagano in tutta la loro gravosa intensità fino a diradarsi in un climax impalpabile e quasi etereo, in cui le sorgenti sonore fondono e confluiscono legandosi insieme in perfetta armonia e inattesa impellenza melodica. Intorno al nono minuto ogni punto di riferimento si perde: gli impulsi si trascinano in frequenze bassissime e ridondanti, la pregnanza diventa opprimente e sfocata e si trascina nella sua lugubre sconnessione fin oltre il dodicesimo minuto. Una parvenza di riposo sensoriale nell'apertura di Drag che poi deflagra in un battito selvaggio e incessante. Ed è proprio la parte centrale di questo pezzo, macchinosa e iper satura a intingere nell'eccesso e a compromettere, a parere di chi scrive, la partitura sempre saggiamente calibrata di questo lavoro. Al punto che We con i suoi bei spunti avant ed i richiami space, sembra a tratti voler forzare l'indulgere spasmodico verso qualcosa che da sperimentazione finisce per banalizzarsi in uno sprint finale tribal techno. Ed è una seconda piccola scivolata. Ben contestualizzata invece in un racconto cinematico preciso, la stagnazione della finale 1114 e i clangori metallici di ispirazione industrial noise a stampo Autechre di Morph.
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