Il cinema dell’incubo Wes Craven
1939 - 2015
La stagione del cinema thriller e horror che si sviluppa negli Stati Uniti tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta (appendice “di genere” del Nuovo Cinema Americano, iniziato qualche anno prima) ha il merito sfolgorante di riflettere su un paese che andava mutando (non sempre in meglio). Dagli zombie di Romero, al controllo invisibile di “Essi vivono” di John Carpenter l'America rifletteva su se stessa attraverso l'orrore; abbandonava però il gusto gotico di Edgar Allan Poe per leccare quelle ferite neanche lontanamente rimarginate che la guerra in Vietnam aveva lasciato sul suo corpo; e lo faceva producendone ben altre sullo schermo (“Apocalipse Now “ vs. “The Texas Chainsaw Massacre”). L'America trasformava i propri sogni in incubi da cui era davvero difficile uscire. Wes Craven, morto il 30 Agosto 2015, stroncato da una lunga malattia, questi incubi li ha cavalcati e descritti come pochi altri nella storia del cinema, e non solo perché il suo personaggio più riuscito e famoso agiva proprio nel mondo dei sogni (Freddy Kruger, splendido e deforme babau postmoderno, spaventoso e demenziale: proprio come gli anni Ottanta), ma anche e soprattutto perché questi incubi si trasfiguravano in ben più reali e tangibili minacce.
Perché tutto l'horror americano di quegli anni è horror politico: è riflessione sulla paura di una nazione intera (la metafora degli umani asserragliati in casa minacciati all'esterno dagli zombie è eloquente), il tremendo spavento provocato dalla modernità, dallo sviluppo, dall'età tecnologica. Più di altri però Wes Craven era consapevole del rinnovamento di un genere. Dagli slasher iniziali (“L'ultima casa a sinistra”, “Le colline hanno gli occhi”), fino a “Nightmare - dal profondo della notte (A Nightmare on Elm Street)” titolo-culto per almeno due generazioni di teenager pronti ad abbandonarsi al piacere d'aver paura, la riflessione sul linguaggio cinematografico è di prim'ordine. Con Freddy Kruger Craven entra nell'immaginario collettivo, non solo americano, infrangendo una volta per tutte i sogni di una generazione perduta (altro che american dream, l'incubo è potente e definitivo). Il film darà il via ad una saga che perderà mordente di film in film, per essere ripresa dal suo autore originario solo alla fine, quel Nuovo incubo che riflette su se stesso, diventa cinema nel cinema, riflessione d'autore di un artista consapevole che le premesse teoriche del suo cinema sono diventate il pane quotidiano per schiere intere di nuovi registi ed autori (nonché spettatori).
É il momento di “Scream”, quattro film-nel-film, picco della carriera di Wes Craven, che reinventa e riadatta l'horror ai tempi di Tarantino. Ma va forse ben oltre, perché lo fa con lo sguardo chi il passato lo ha vissuto (un po' come Scorsese in “Casinò”): lo disseziona come fosse un serial killer con la macchina da presa; ci mette davanti ai meccanismi che regolano un genere, si diverte ad infrangere le regole per il solo gusto di farci vedere che queste regole esistono (e molte di queste proprio da lui sono state inventate). Il divertimento sta tutto lì: azione e reazione, regola e rivoluzione. I quattro Scream andrebbero visti tutti di fila come un unico film, una carrellata (a tratti nostalgica) su uno degli ultimi generi cinematografici realmente rivoluzionari della storia del cinema americano, un lascito e una lezione di cinema tra le più alte degli ultimi anni.
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