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9 Novembre 2012

C’era Una volta In America Sergio Leone

1984-2012 - Italia-USA

ceraunavoltainamerica1984Torna in sala dopo 28 anni C’era una volta in America, ultimo film di Sergio Leone, suo testamento cinematografico e summa di tutta una carriera. Quattro ore e sedici minuti di film che restituiscono al pubblico l’opera così come l’aveva pensata e girata Leone, realizzata nel 1984 dopo più di un decennio di preparazione. Per la prima volta, dunque, le “ultime volontà” del regista arrivano sul grande schermo, soppiantando le versioni che del film erano state distribuite in passato, quella di 229 minuti (l’edizione italiana) e quella –  selvaggiamente mutilata –  di 139 minuti distribuita oltreoceano. Il restauro e l’ampliamento del film è stato curato dalla Cineteca di Bologna e dalla famiglia del regista (e finanziato da Gucci e da The Film Foundation di Martin Scorsese), i quali, grazie anche alla consulenza di chi all’epoca aveva lavorato al film, hanno inserito i 26 minuti di materiale inedito così come erano stati pensati nella sceneggiatura originale. Il restauro, inoltre, ripristina il doppiaggio originale del film, quello approvato da Leone, che era stato eliminato nella precedente versione italiana dell’opera (e che restituisce a De Niro la voce storica di Ferruccio Amendola).

 

Un film, dunque, che torna alla sua integrità; un’operazione filologica finalizzata a recuperare per intero il racconto-fiume il cui scorrere era stato interrotto dalle logiche della produzione, secondo cui un oggetto-film di più di quattro ore era una sorta di monstrum (etimologicamente: oggetto immane sì, ma al contempo meraviglioso quanto incommensurabile) i cui tentacoli andavano necessariamente mutilati. L’epopea tragica di Noodles, Max e degli altri “bravi ragazzi” ebrei newyorkesi attraverso sessant’anni di storiac'erawoodsamerica americana riacquista così tutta la magniloquenza che era stata progettata in origne, in un film che racchiude l’idea di cinema e la poetica del regista: l’amicizia e il tradimento, il sangue e il sudore, l’amore e la violenza, la grandeur e l’intimità dei sentimenti. C’era una volta in America non è solo la summa del cinema di Leone, ma una sorta di contenitore cinematografico in cui la presenza del grande cinema non scade nel semplice omaggio, ma si sublima in una appassionata dichiarazione d’amore, in una rilettura del mito e del cinema (americano, ma non solo). 

 

Sì, perché C’era una volta in America è una grande Wunderkammer, camera delle meraviglie cinematografica, e al suo interno ci si trova davvero tutto: cinema vecchio e nuovo (Ford e Huston, ma anche Coppola e Cimino), americano ed europeo (Kubrick e Truffaut), gangster movies e western, Cinecittà e Hollywood (ma anche il New Jersey, la Florida, Venezia), tragedia e commedia, realtà e ricordo, chiarezza e allucinazione. E proprio come in una camera delle meraviglie tutti i materiali vengono ammassati e confusi tra loro, in un apparente disordine allucinato e allucinatorio (e se la vicenda fosse tutta una fantasia di Noodles offuscato dall’oppio?) rappresentati giustapponendo la grandiosità delle immagini e la perizia maniacale per i dettagli, la violenza bruta e il melodramma più lacrimevole, l’espressionismo e il realismo, la perizia nella ricostruzione d’ambiente e l’iperrealismo della rappresentazione (mai il sangue è stato così finto, “godardianamente” rosso e antirealista nella storia del cinema).

 

c-era-una-volta-in-americaC’era una volta in America  è un film-tutto, perfetto proprio perché imperfetto, meraviglioso nel suo travaglio; e non per niente è un film che sceglie la non linearità del racconto, avvolgendo la trama su se stessa (tra flashback  e flashforward) e rilasciandola gradualmente, sovrapponendo i piani di tempo e i punti di fuga. È un film troppo grande anche per lo stesso Leone (che chiama alla sceneggiatura un dream team di alta caratura: Benvenuti, De Bernardi, Medioli, Ferrini e il mai troppo ricordato Franco Arcalli, morto prima di poter vedere il film realizzato), un film in cui il cinema italiano dimostra (se gli altri film di Leone non l’avevano già fatto abbastanza) che quando vuole sa essere più americano del cinema americano, e tutto questo grazie ad un abile tradimento e sublimazione del mito attraverso l’occhio cinematografico espressionista del regista, che isola la mitologia dal superfluo e su questo costruisce una nuova epica.  

 

Le scene tagliate e ora ricostruite contribuiscono a perfezionare lo scorrere del racconto nella sua torrenziale epicità, a volte aggiungendo dettagli non trascurabili (il dialogo tra Noodles e la direttrice del cimitero, o quello tra il senatore Bailey e il sindacalista O’Donnell); altre volte approfondiscono (ancora di più) la psicologia tormentata dei personaggi (la scena di sesso tra Noodles e la prostituta dopo lo stupro di Deborah), oppure amplificano il lirismo impressionista della pellicola. Tra queste ultime spicca la sequenza, muta e assolutamente astratta, dei ragazzi che riemergono dopo il tuffo incuvinamerica mare con l’auto, sequenza che fa da pendant a quella del tuffo di Noodles e Max durante il recupero delle casse di liquore gettate nel fiume (ma non si può non citare anche la sequenza in cui Deborah recita a teatro nei panni di Cleopatra, in una messa in scena che oscilla tra espressionismo e peplum). Nuovo materiale, insomma, che ingigantisce un gigante, pompa i muscoli di un titano, restituisce la grandezza mancante ad un film (e ad un regista) che era già grande, eccessivo, debordante. Un’operazione, questa nuova edizione,  tutt’altro che commerciale (cosa che spesso si rivelano molti director’s cut), ma di grande filologia cinematografica e rispettoso recupero di un’opera che solo oggi possiamo dire davvero completa.

 

 

Luca Verrelli

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