Van Der Graaf Generator DO NOT DISTURB
[Uscita: 30/09/2016]
Inghilterra #consigliatodadistorsioni
L’ultima fatica dei gloriosi Van Der Graaf Generator, “Do Not Disturb”, rischia di essere realmente l’epilogo del percorso della funambolica band di Peter Hammill e soci, per ammissione esplicita del deus ex machina. Il peso di una carriera valorosa e tra le più originali dell’intera storia del progressive, l’onustà degli anni che si affastellano e dei relativi problemi di salute di Peter negli ultimi frangenti, la mancanza di un autentico istrione, geniale e pirotecnico, come David Jackson, transfuga dopo “Present”, nel 2005, indubbiamente incidono alquanto sulla freschezza della vena compositiva del Generatore. Tuttavia, il presente album è tutt’altro che paradigma di mediocritas, sia pure aurea: è il disco migliore, a nostro sommesso parere, dai tempi della reunion del 2005. Più intenso di “Present”, più liricamente pregnante di “Trisector”, più creativo di “A Grounding In Numbers”, per non parlare, poi, dell’infelice parentesi sperimentale del modesto “Alt”. Questo è un disco di autentico nerbo progressive, con Hammill, Hugh Banton e Guy Evans ottimamente ispirati, capaci di architettare impalcature sonore di solidità notevole, venate da melanconici segmenti di puro lirismo espressivo, quasi presagio della fine imminente di un’avventura musicale ed esistenziale dipanatasi nell’arco di mezzo secolo.
Funziona superbamente l’assemblaggio strumentale del trio, con chitarra, organo, basso, batteria, armonica, e la voce irripetibile e sciamanica di Peter. Un’alternanza di suoni ora aspri e sostenuti ora adagiati su un soffice tappeto di note e sfumanti in melanconica dissolvenza. A partire dall’iniziale traccia di Aloft, in cui a torreggiare è la voce superba di Hammill, validamente sostenuta dall’organo di Banton e dal lieve pulsare della batteria di Evans, e proseguendo con le sirene d’apertura e con il clangore del traffico riprodotti in Alfa Berlina (cronistoria delle scorribande in macchina ad opera dell’automedonte Salvadori, manager italiano della band negli anni Settanta, che li conduceva per le città italiane durante le tournée), prima che l’impianto sperimentale del brano si dispieghi in tutta evidenza, con impennate progressive degne dei primordi; qui la voce di Hammill assurge a vette di drammaturgia espressiva notevolissima. Dominante è il recupero di sonorità della migliore tradizione del Generatore, riuscendo a limitare l’impatto dell’assenza del leggendario sax di Jackson, come in Room 1210, dove una chitarra liquida e a tratti languente fa da contrappunto alla voce morbidamente elastica di Peter e alla linea melodica dell’armonica, tarsiata da note pianistiche sincopate.
Verso un impianto più decisamente rock, si orienta la robusta linea compositiva di Forever Falling, tra le pieghe di una trama armonica di più ordinaria tessitura, forse l’episodio meno brillante dell’album. Passando per l’inserto dell’armonica di Shikata Ga Nai in forma di interludio, il ritmo torna a salire in virtù della traccia successiva, (Oh No I Must Have Said) Yes, energetico segmento di mera adrenalina iniettata in chiave di rock. Le note deliquescenti del piano aprono la prospettiva sonora di Brought The Book, col tenue sostegno della voce di Hammill tenuta su registri crepuscolari, sulla cui scia tardo vesperale si snoda il nastro color ocra della splendida Almost The Words che attinge alla migliore vena intimistica del repertorio solistico del leader, voce superbamente malinconica assecondata dagli strumenti in quieta e piena armonia. Il tassello conclusivo, Go, suona come un epicedio, cupo affresco sonoro di commovente poesia, a chiudere simbolicamente il cerchio numinoso di uno dei più grandi gruppi della storia della musica contemporanea. Lunga vita al Generatore.
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