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10 Settembre 2017 , ,

The Dream Syndicate Il ritorno: “How Did I Find Myself Here?”

Uscita: 8 Settembre 2017 - Anti Records

cover             Il sindacato del sogno

 

Il termine 'Paisley Underground' è stato coniato probabilmente proprio per provare a dare un collocamento alla band di Steve Wynn. Quel sindacato del sogno che nella sua ragione sociale provava a strizzare l'occhio all'avanguardia sperimentale e a rimasugli di romanticismo e disillusione troppo ambigui e troppo complessi per voltarsi indietro in modo nostalgico, troppo radicati nel proprio contesto storico e sociale per tentare spavaldamente di proiettarsi in un futuro che stentava a delinearsi e soprattutto a trovare appigli creativi davvero estranei a ciò che fino Dream-Syndicate-2a quel momento si era prodotto in ambito musicale. L'album del 1972 dei Faust e di Tony Conrad "Outside the Dream Syndicate" si muoveva su traiettorie di minimalismo e onirismo che rappresentavano immersioni contemplative, stati ipnotici scanditi da fasce sonore in cui le variazioni si basavano su microtoni. Proprio Conrad, insieme a LaMonte Young e John Cale, aveva dato vita al Theatre of Etenal Music  nei primi anni '60, conosciuto anche semplicemente come The Dream Syndicate. Le performance erano profondamente intimistiche, ispirate all'arte neo dada e al movimento Fluxus. In realtà nulla di neanche minimamente associabile al percorso dei Dream Syndicate di Steve Wynn, Kendra Smith, Dennis Duck e Karl Precoda, iniziato nel 1981.

 

Ma forse il trait d'union, con un'analisi un po' più approfondita, si può comunque scorgere. E' rappresentato dal termine ‘dream’ e tutte le sue implicazioni meno scontate. Symon Reynolds che ci racconta il post punk nel suo volume antologico ormai assolutamente dreamsyndicate_2_1341397104iconico (“Post Punk 1978-1984”, ISBN Edizioni, 2010) può fornirci chiarimenti essenziali per inquadrare il modo di sognare di una generazione come quella californiana sul finire dell'esplosione punk del 1978. C'è un momento di stasi, un momento di riflessione che il post punk non riesce a raccogliere e decifrare. Si sente il bisogno di rimettersi in contatto con la tradizione psichedelica, con le radici country e blues ma con un'attitudine più grezza e più irruenta, più fedele a rappresentare un'epoca di incertezza e di inquietudine. Allo stesso modo il punk violento e urlatore non è più in grado di contenere sfumature più umbratili e introverse, esigenze colte e di ricerca non relegabili alla semplice rabbia e indignazione giovanile. Nella locuzione Paisley Underground quindi si fanno entrare una serie di sfumature e di variabili che ne contraddicono la finalità di contenitore di stereotipi.

 

downloadIn questo senso il primo lavoro della band sulla lunga distanza del 1982 "The Days of Wine and Roses" (Ruby) ci dà una prima idea della complessità del sogno. Una visione fortemente emozionale, scarna e ruvida, piena di nostalgie per qualcosa di ineffabile e fuori dal tempo in cui si analizza la più vasta gamma di sentimenti e stati d'animo e i loro contrasti. Una potenza espressiva che amplifica ed elettrifica l'indolenza, elevandola a lirica poetica. Tutto è obliquo, soavemente contorto, tutto si posa tra feedback aspri e acidi, muore in un'armonia decadente capace di avvolgere, scuotere e trafiggere. Nell'arco di una manciata di anni e con l'abbandono di Kendra Smith medicineshow_1322615816e del bravissimo Karl Precoda vengono messe fuori una serie di istantanee sonore impareggiabili per spessore drammatico e originalità. Il vertice in fatto di finitura stilistica: "Medicine Show" (A&M, 1984), l'incerto e meno convincente "Out of Grey" (Atavistic/Big Time, 1986), il crepuscolare "Ghost Stories" (Enigma/Restless, 1988) e poi il gioiello più fulgido, quel “Live At The Raji's” (Enigma, 1989) che rappresentava il più nobile congedo ad irripetibili giorni di vino e di rose, di gioia e di entusiasmo, ispirazione e spensieratezza.

 

 

L'album del ritorno: "How Did I Find Myself Here?" (2017)

 

coverPassano 28 anni. Per chi è stato posseduto da quella magia si fa in tempo a precipitare nella nostalgia di un perduto senza contorni che molto somiglia alla nostalgia su cui si edificarono gli stessi Dream Syndicate. Potrebbero mai tornare i giorni del vino e delle rose, i giorni perduti di qualcosa che irrimediabilmente il tempo trasforma e sbiadisce? Forse solo in un sogno. In un sogno lucido e disperato che questa volta non vuole tralasciare nulla, che partecipa della lezione del passato ma che è anche cosciente del cambiamento, dell'evoluzione e serenamente li accoglie. Il disco del ritorno della band, "How Did I Find Myself Here?",  ci racconta che siamo forgiati dal nostro vissuto, da ciò che rigettiamo e da ciò che prediligiamo, dal modo in cui lo adattiamo al nostro essere, alla nostra voglia di interpretare e scoprire senza tralasciare di metterci del nostro. In formazione gli storici Steve Wynn e Dennis Duck che mantengono The_Dream_Syndicate_Press_Photo_by_Chris_Sikichquasi integra la sezione ritmica, Mark Walton presente dal 1986 e la nuova chitarra di Jason Victor. Kendra Smith regala il cameo della sua voce nel pezzo Kendra's Dream. Otto pezzi scintillanti e pacificati che ci restituiscono un ordine maturo forse meno irruento e istintivo ma non meno interessante e incisivo. Filter Me Through You fa dialogare le chitarre posate in atmosfere più morbide pur non disdegnando traiettorie articolate e contorte. Glide è senz'altro più sferragliante e free form, omaggia la provenienza psichedelica e l'inconfondibile groove di feedback pur con una vocalità ovattata e meno gutturale di Wynn. 

 

Arriva più sicurezza, maggiore disinvoltura nei passaggi ma ci si muove bene tra sferzate ritmiche e intercalari più emotivi. Non si ammicca al passato, non si cade in auto indulgenze. L'esperienza porta all'equilibrio. Tutto è godibile e propulsivo, The Dream Syndicatecinematico, avvolgente e graffiante. Poi la carambola di basso che introduce 80 West è una doccia fredda di reminescenze distorte. C'è ironia, c'è leggerezza, c'è voglia di giocare e c'è integrità. Riesce la grande sfida di proiettarci in un mondo sonoro in cui non c'è più voglia di imbastire un confronto. Nemmeno quando alcune cadenze di Like Mary ci parlano di When You Smile. Esiste il qui e ora dell'incanto nuovo che annienta e dissipa tutti gli interrogativi. C'è tempo per essere folgorati dai riff acidi di The Circle e rimanere stupiti dai cambi repentini e dalla dissolvenze dell'omonima How Did I Find Myself Here? che ancora una volta propone un crossover di generi e di richiami (photo by Matt Condon / @arcane93)capace di vanificarli. Poi le luci perdono intensità e siamo in una penombra intrigante a vedere un carillon che gira su se stesso a raccontarci le nenie ossessive dei Velvet Underground, le trasversalità degli Stooges, la perdizione di Jim Morrison, l'evanescenza catartica e il tormento rumoroso di Sonic Youth e Jesus And Mary Chain. No, i giorni del vino e delle rose non possono tornare. Però possiamo inventarne di nuovi e le promesse possiamo leggerle in ciò che abbiamo più che in quello che non c'è più. Nell'irripetibilità e nell'unicità del nostro esistere è racchiusa l'essenza di ogni sogno. 

 

 Ascolta  How Did I Find Myself Here? 

 

Romina Baldoni

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