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15 Marzo 2012

Progressive: Genesis The Lamb Lies Down On Broadway: catarsi e sublimazione del Progressive inglese

1974 - Charisma/Atco

"The Lamb Lies Down On Broadway": 18 Novembre 1974, Charisma/Atco, 94:22 - Producer: John Burns, Genesis

 

I tardi Genesis

‘Ciao, veniamo da lontano perché vogliamo suonare in Italia per voi e avere una bella festa. Abbiamo scritto una lunga storia, questa sera desideriamo raccontar….vèla tutta. Grazie Italia… questa è la storia di Rael’

A Torino, il 24 marzo del 1975 alle ore 21:05, con precisione tutta anglosassone, Peter Gabriel iniziava così, errori di linguaggio e di pronuncia compresi, l’unica tappa italiana del tour mondiale che portava in scena una delle opere rock  ‘concept’ più amate e ascoltate di tutti i tempi. Un album doppio che, alla sua uscita, per melodie, testi, vena compositiva e scelta dei suoni (quelli sintetici, in gran parte affidati all’estro elettronico di Brian Eno) rompeva quasi tutti i legami con il passato dei Genesis e disorientò non poco i loro fan; li disorientò a tal punto che, all’inizio, si arrivò a dire che “The Lamb Lies Down on Broadway” era un lavoro pretenzioso e troppo influenzato dall’ego smisurato e martoriato di quello che, all’epoca, era il leader indiscusso della band britannica, Peter Gabriel.  In effetti, dopo avere raccontato per anni di ere passate, di età dell’oro perdute, di mito e di leggenda, con la leggerezza e la profondità sinfoniche tipiche di una band progressive a tutti gli effetti, in questo album la musica e le liriche dei Genesis si fanno di colpo più tenebrose, più cattive, più intime; i suoni si fanno spesso distorti e i ritmi pulsanti e ossessivi. Il tutto è stato concepito per accompagnare Rael (l’eroe della storia, perché di una vera e propria storia si tratta) attraverso il suo viaggio allucinante in una Broadway all’incontrario. Una Broadway sotterranea dove tutto può accadere.

 

Primo capitolo (Disco 1) - Odissea di Rael,  la discesa nell'inferno metaforico di Broadway

La nebbia sale sui marciapiedi mentre il traffico scorre, veloce e caotico come sempre. Rael probabilmente sta tornando da uno dei suoi notturni raid con la bomboletta spray. Lui è il re della bomboletta, uno che colora i muri e i treni della metropolitana cercando di dargli un’anima. E’ portoricano e, come tale, è automaticamente un emarginato nella New York degli anni 70. Vive di espedienti, ma è anche violento e subito pronto a menare le mani. La title track (che apre l’album) racconta proprio di questo. Il preludio, con il piano martellante di Tony Banks e successivo sontuoso ingresso di basso, batteria e chitarre racconta già di attività frenetica, racconta di una città che non dorme mai. I testi ricalcano tutto questo e sono istantanee di ciò che accade al mattino presto a Times Square. Ubriachi senza meta, senzatetto che vengono cacciati dopo avere dormito, al costo di un biglietto, nei cinema a luci rosse aperti di notte, camionisti e tassisti incazzati e soprattutto Rael, che urla a tutti ‘Io non sono come voi! Io sono Rael’. Il gioco di parole tra Rael e Real è uno degli infiniti trick con i quali Gabriel, nei suoi testi, aveva da sempre spiazzato coloro che approcciavano i suoi testi. Come se il mondo sotterraneo che Rael profana con il suo aerosol si volesse prendere una rivincita ecco che egli inizia a precipitare giù per l’asfalto sempre più velocemente, tra l’indifferenza generale, mentre Gabriel fa il verso a George Benson e canta

It’s always bright on Broadway… there’s always magic in the air’

‘E’ sempre luminoso a Broadway… c’è sempre qualcosa di magico nell’aria’

 

Inizia così il suo viaggio allucinante. La chitarra di Steve Hackett accenna alcuni accordi sognanti mentre il muro della morte si è posato, non visto e protetto dalla nebbia, su Times Square; Rael ci sbatte contro inesorabilmente, come una mosca che si schianta sul parabrezza di un’auto in corsa sull’autostrada (stupenda la rappresentazione sonora dell’impatto che evoca proprio un crash, uno sfracellarsi contro una forza superiore). Mentre scende verso i suoi inferi personali, Rael riesce ancora a sentire gli echi della Broadway di sopra, le bande di strada e le majorettes, Lenny Bruce (satirico irriverente one-man-show immortalato in un bel film da Dustin Hoffman), il guru della comunicazione di massa Marshall McLuhan, Groucho Marx, l’onnipresente Ku Klux Klan (che quasi impedì ai Beatles di suonare anni addietro a causa delle frasi di Lennon circa Gesù Cristo), Caryl Chessman (che fu protagonista di un famoso caso giudiziario; condannato a morte per sequestro e stupro riuscì a scampare al patibolo per 8 volte e in carcere iniziò a scrivere ottenendo anche un discreto successo editoriale. Fu giustiziato solo 12 anni dopo l’arresto), Howard Hughes e tutti coloro che, in qualche modo, avevano ottenuto notorietà sufficiente per essere rappresentati per le strade o nei teatri di Broadway.

 

Rael viene inghiottito e si sente come se fosse morto e rinato (Cockoo Cocoon). Scopre di essere avvolto in un bozzolo di lana e di trovarsi in un ambiente umido e chiuso. Stare all’interno del bozzolo è per lui come essere rientrato nel ventre materno e ciò lo fa stare bene.  Il flauto allegro e quasi spensierato di Gabriel sottolinea questa sensazione di benessere ma, già al termine della seconda strofa, un senso di claustrofobia pervade il protagonista che inizia a sentirsi già al termine di questa pausa di benessere. Anche il tema di flauto cambia e prelude a qualcosa (ad una nuova nascita?). In the Cage comincia con la cassa di Phil Collins che inizia a martellare; così può apparire il battito del cuore materno alle orecchie del feto (il batterista, in questo album, esprime più che in tutti gli altri dei Genesis una particolare capacità di dare alla parte ritmica anche una grande valenza melodica). Tutto diventa più ossessivo e Rael si sente come affogato in una paura tangibile, liquida (‘I’m drowning in a liquid fear’). La voce di Gabriel e gli onnipresenti controcanti di Collins enfatizzano il panico del dover uscire al più presto e, nello stesso tempo, di non volerlo fare. Poi il senso di claustrofobia fa posto ad una sensazione di compressione, di stritolamento, di alterazione fisica e allora Rael non vede l’ora di uscire. Arriva ad implorare che qualcuno lo faccia uscire da quella che a lui appare come una grotta ostile piena di secrezioni calcaree

‘Get me out of this cage! – Tiratemi fuori da questa grotta!’

 

Il magistrale e velocissimo assolo di Tony Banks al synth accelera le cose e prelude alla futura rinascita. Rael intravede una luce fuori dalla gabbia/utero e scorge suo fratello John (una sorta di suo alter-ego che lo accompagnerà, da questo momento, lungo tutto lo svolgersi della storia). Gli chiede aiuto ma quello si gira e va via come se non avesse né visto né sentito nulla. Una volta fuori, Rael cerca con lo sguardo John ma non lo vede più, mentre il suo corpo inizia a girare e a girare su se stesso (My body revolves… keep on turning). John (il fratello di Rael) può essere considerato tutto ciò che Rael non è. E’ un conformista, un integrato. Il suo bisogno di sentirsi accettato è talmente elevato da spingerlo a fare qualsiasi cosa per esserlo (arrivando anche al tradimento o, peggio, all’indifferenza). Si dice che Gabriel abbia scritto questa storia avendo in testa la figura di suo fratello che pare soffrisse di schizofrenia. In realtà, per tutto l’album, non si capisce se John sia davvero “altro da Rael” o solo una proiezione del suo subconscio , utile a giustificare decisioni e azioni che Rael non accetterebbe come proprie.  Un fischio come di treno a vapore in partenza e Rael si ritrova (The Grand Parade of Lifeless Packaging) in una fabbrica dove si impacchettano persone apparentemente senza vita. La descrizione dell’impacchettamento, oltre ad essere piuttosto grottesca e a tratti divertente, evoca la preparazione delle mummie egizie. Fra gli operai Rael scorge anche qualche volto conosciuto.

 

Rivede anche John che, nella catena di montaggio, è il pacchetto numero 9 e sta per essere anche lui spedito con tanto di timbro ed indirizzo verso uno strano destino. Insieme a John molti altri impacchettati, tutti uguali, tutti uniformati dalla produzione in serie. Tutto funziona come un orologio e, come accade in una fabbrica, il ritmo di lavoro da sonnacchioso (all’inizio) diventa più produttivo e chiassoso man mano che passa il tempo (è un brano che ha nel crescendo delle dinamiche la sua principale caratteristica) fino al caos finale. Rael intravede negli involucri la privazione di qualsiasi libero arbitrio e sa già che lo stesso destino toccherà a lui e che verrà anch’egli spedito, chissà dove. La prima facciata del vinile si chiude nel caos totale della fabbrica in piena attività che viene come interrotto da un corto circuito. Gabriel canta che ‘forse bastava un fusibile’ (‘just need a fuse’). Come se Rael volesse ribellarsi a questo destino già segnato ci racconta, per bocca di Gabriel , la sua vita di fuori. Viene ossessivamente accompagnato da una chitarra distorta che esegue un loop melodico ciclico, ad alto contenuto di acidi (Back in NYC).

 

Questo suono di chitarra, da parte di un raffinato purista e ricercatore di suoni perfetti ed eterei quale è Steve Hackett, da solo la dice lunga sul cambiamento che questo disco aveva richiesto a ciascuno dei componenti dei Genesis; nei dischi del passato (e in quelli futuri) un pezzo così dichiaratamente rock e assolutamente privo di connotazioni progressive non c’era e non c’è più stato. Anche la voce di Gabriel è graffiante e distorta come mai prima. Dal racconto di Rael viene fuori uno spaccato da bullo, che ricorda in qualche modo il personaggio di Alex di Arancia Meccanica. Rael dichiara di essere uscito dal riformatorio a 17 anni, di essere uno tosto, uno sempre pronto a menare le mani per primo, al comando della sua gang di strada armato di catene e mazze. Sempre alle prese con il suo cuore che definisce “peloso” e con coloro che vorrebbero raderglielo. L’amore stesso, fisico o romantico che sia, nell’inciso viene visto  come una cosa da evitare;

 

‘Held my heart, deep in hair. - Time to shave, shave it off, it off. - No time for romantic escape, - When your fluffy heart is ready for rape. No!’ 

‘Strinse il mio cuore ricoperto di peli - E’ tempo di raderlo, raderlo completamente Non c’è tempo per le scappatelle romantiche - Quando il tuo cuore peloso è pronto per la violenza. No!’

 

Rael si autodefinisce polemicamente ‘Forte come l’anello più debole della catena’ poiché, secondo il suo pensiero, è proprio ai più deboli che la società deve pensare per primi affinché essa stessa non abbia a cadere. Rael scarica sulla società la colpa della proprie azioni

This is your mess I’m stuck in, I really don’t belong’

‘E’ un problema vostro il guaio in cui mi ficco, non riguarda certo me

in questo rivelandosi molto simile a tanti violenti adolescenti che popolano le città del mondo intero. Ma l’amore alla fine prevale (anche se si tratta più di bisogno fisico, di volontà di accoppiarsi). Rael, in questo, è imbranato al pari di tanti suoi coetanei. Il suo cuore viene finalmente depilato (Hairless Heart) e  questa delicata operazione viene eseguita senza parole, accompagnata da una struggente melodia quasi certamente composta da  Hackett e/o da Banks. Rael è pronto. Il suo testosterone è ai massimi storici. La sua voglia di copulare è arrivata a livelli insopportabili. Ha un appuntamento e non vede l’ora che arrivi il momento (Counting Out Time). Va a comprarsi un libro che gli spiega con delle immagini dove sono posizionate le zone erogene femminili e si chiede cosa potrebbe fare un povero ragazzo se tali zone non esistessero. La composizione ricorda alcuni grotteschi movimenti della lunga suite Supper’s Ready dall’album “Foxtrot”.

 

La voce camaleontica di Gabriel cambia di intonazione e timbro a seconda delle emozioni provate nell’immaginarsi un Casanova alle prese con la sua preda. Purtroppo, però, la delusione è dietro l’angolo e ciò che doveva essere un tripudio, un successo, diventa un completo fallimento, tanto da spingere Rael a pensare di restituire il libro e farsi ridare i soldi indietro. La preda si ribella a questo approccio meccanico e privo di sentimento e gli assesta un bel ceffone sul viso. Pur essendo molto ironico dal punto di vista dei testi, questo brano musicalmente non è uno dei momenti migliori dell’album e cozza decisamente con l’intera architettura.  Forse è stato concepito avendo come obiettivo il mercato dei 45 giri e quello delle radio (infatti è uno dei due estratti) ma anche in questa veste, in seguito non diventerà mai una hit capace di scalare le classifiche (come invece era stato per I know what I like incluso nell’album precedente “Selling England By The Pound”)Quello che viene subito dopo, invece, è uno dei momenti migliori dell’intera discografia dei Genesis. Uno di quei brani che, a ben ragione, può tranquillamente essere inserito fra i primi posti in qualsiasi classifica seria che parli di musica rock.

 

Parlare di Carpet Crawlers (in italiano potrebbe essere Le Creature Striscianti) è come profanare un tesoro poiché va ascoltata e basta (il femminile è d’obbligo vista la dolcezza e la malinconia infinite che questo brano trasmette). Il solo intro di piano e voce varrebbe l’acquisto dell’intero album. Il pezzo, oltre all’intro, si sviluppa lungo 4 strofe intervallate dal refrain famosissimo ‘We got to get in to get out -  Dobbiamo entrare per uscire’. Ogni strofa, rispetto alla precedente, risulta più carica di suono e di pathos; sensazione acuita dal canto, sempre diverso dalla precedente. L’intreccio delle voci di Gabriel e Collins (in background) è perfetto e la chitarra di Hackett disegna ammalianti arabeschi di onde sonore senza soluzione di continuità. Il testo rappresenta un’umanità prostrata, che cerca di uscire da un lungo corridoio, talmente basso che l’unica maniera di procedere è quella di strisciare, spesso sovrapponendosi e schiacciando chi sta davanti.

 

Non c’è luce, quindi si tastano le pareti e il pavimento, via via ricevendo in cambio sensazioni diverse. Qualcuno ha paragonato il testo ad un coito e le persone che strisciano agli spermatozoi che arrancano in competizione l’uno con l’altro per ottenere in premio l’ovaio. Non si sa se Rael faccia parte di coloro che strisciano sul tappeto ma alla fine, sicuramente, approda in una stanza dove c’è una specie di arena con delle gradinate. Intorno a lui vede 32 porte (The Chamber of 32 doors). L’intro di mellotron è tipico Genesis e tutta la struttura del brano riecheggia atmosfere già ascoltate in “Nursery Crime” e Foxtrot. Rael è logorato dal fatto che solo una delle porte non lo farà ritornare in questa sorta di stadio dove, come spettatori, coesistono ricchi e poveri, uomini di città e sempliciotti di campagna, sua madre e suo padre, preti e negromanti. Le porte sembrano infinite e non riuscendo a trovare punti di riferimento (‘someone to trustqualcuno in cui credere’) ogni volta che fallisce viene inesorabilmente riportato indietro e non riesce neanche a ricordare quale sia l’ultima porta imboccata. Anche i suggerimenti che arrivano dagli spalti (compresi quelli dei suoi stessi genitori) non sono mai attendibili.  Il primo disco si chiude con Rael che invoca: ‘Take me away!- Portami via!’

 

Lo show

Fin qui (dal vivo) Rael/Gabriel non ha indossato niente altro che i suoi panni. Generalmente, durante questa parte dello show, Gabriel aveva l’intero viso truccato e scurito e non indossava alcuno degli abiti stravaganti ai quali il suo pubblico si era abituato (Magog o Flower di Supper’s Ready o Lady Britannia di Dancing With the Moonlight Knights, ad esempio). In questo, forse, si comincia ad intravedere un certo rifiuto di Gabriel per le sovrastrutture pompose che un evento progressive doveva necessariamente portarsi dietro, aprendo le porte a una carriera solista molto meno prolifica (i Genesis, con Gabriel, hanno sfornato 5 album in 5 anni, lui produrrà un album ogni 5 anni in media) e molto più scarna dal punto di vista spettacolare durante i live. Gabriel, alla fine del massacrante tour di The Lamb lascerà il gruppo e quasi tutte le tappe americane furono per lui un’autentica sofferenza, anche perché il rapporto con il resto dei componenti era diventato quasi insostenibile. Fatte queste premesse, c’è però da dire che lo show di “The Lamb Lies Down on Broadway” è innovativo sotto diversi aspetti.

 

Cominciano ad essere usate massicciamente luci laser e stroboscopiche e, sullo sfondo del palco, dietro Collins, che si piazzava sempre al centro del gruppo, c’era un grande schermo sul quale un sistema di proiettori di diapositive sincronizzati proiettava immagini inerenti al testo e alla storia di Rael in sync con la musica. Per chi fosse interessato a vedere lo show esattamente così com’era (dato che, inspiegabilmente, nessuno pensò di realizzarne un filmato professionale, e che di quello spettacolo è disponibile solo una registrazione audio integrale di qualità discutibile) si segnala l’esistenza di  una tribute band canadese (The Musical Box) che porta in giro l’intero show, compresi palco, strumenti e diapositive originali acquisiti in licenza dagli stessi Genesis. Tornando ai travestimenti, nella seconda parte dello show Gabriel si travestirà diverse volte, assumendo gli aspetti più incredibili (celeberrimo è il costume da  Slipperman).

 

Secondo Capitolo (Disco 2) -  Lussuria, evirazione, paradiso del 'neutro', catarsi di Rael.

Il secondo disco inizia con un pezzo breve ma molto intenso. Rael ha finalmente trovato una guida sicura che lo condurrà fuori dall’arena. Si tratta di Lilith (Lilywhite Lilith) una donna cieca che seguendo il vento conduce Rael verso l’uscita giusta e gli raccomanda di sedersi su uno scranno di pietra, al buio.  In questa seconda parte, nei testi ritorna la mitologia tanto cara ai Genesis prima maniera (Lilith e, successivamente, le Lamia). In particolare, Lilith nelle antiche religioni (ebraiche e mesopotamiche) era un demone femminile; in seguito, finirà per diventare un simbolo del femminismo e dell’emancipazione della donna. Rael si siede e attende, mentre i Genesis si danno alla sperimentazione. In questo pezzo (The Waiting Room) gli spartiti sono banditi e l’unica cosa che vale è il tempo nel quale il brano deve essere eseguito (per esigenze di show). Per il resto, ognuno di loro può produrre i suoni che più gli aggradano in quel momento. Un momento di follia che, ad un primo ascolto, può sembrare cacofonico e irritante ma che ha un senso se si pensa che Rael è sempre più confuso e che non ha idea di quale sia il suo destino al di là di questa sala di attesa. Il pianoforte con l’arpeggio martellante di Banks annuncia la fine dell’attesa e l’inizio del brano successivo (Anyway) dal testo oscuro. Rael si chiede, tra le altre cose, se andrà a arricchire le risorse fossili sottoterra una volta decomposto o se esploderà come una stella.

 

Alla fine si rende conto che non morirà e che la sua scadenza con il creatore è ancora aperta (‘Keep the deadline open with my maker!’).  Ha un appuntamento con l’anestetista supernaturale (uno dei tanti personaggi di cui Gabriel si è divertito a tracciare i profili in forma di canzone). Si tratta di uno che se solo gli soffiasse in faccia,  potrebbe ucciderlo. Ma non lo fa. Lo anestetizza per prepararlo all’incontro con le Lamia (The Lamia) figure in parte umane e in parte animalesche, rapitrici di bambini; fantasmi seduttori che adescavano giovani uomini per poi nutrirsi del loro sangue e della loro carne (Wikipedia). Il brano è un altro dei tanti piccoli capolavori di The Lamb. In questo particolare frangente è la voce di Gabriel a raggiungere vette sublimi di capacità interpretativa incrociata strettamente allo splendido tappeto di keyboards del solito Banks. Le Lamia vivono in una piscina, Rael vi entra nudo e senza timore. Si lascia avviluppare dalle creature in un amplesso appagante, cannibalesco e mortale al contempo. Al contrario della loro fama però, le Lamia dopo avere assaggiato la prima goccia del sangue di Rael iniziano a contorcersi e muoiono dopo avere esclamato:

We all have loved you Rael - Ti abbiamo tutte amato Rael!’.

Di loro rimangono solo le carcasse in putrefazione simili a

Silent sorrows in empty boats  - Lamenti silenziosi in barche vuote

 

e Rael esce dalla piscina con ancora addosso la voglia di rincontrare le Lamia e ripetere l’esperienza fino alla fine dei suoi giorni. In realtà Le Lamia rinasceranno a nuova vita e ripeteranno in eterno la loro mortale danza amorosa. Rael si ritrova nella colonia degli uomini amorfi (The Colony of The Slippermen) dove incontra tutti gli uomini che le Lamia hanno amato e che, ricoperti di pustole terrificanti e assolutamente privi di qualsiasi
residuo aspetto umano, mostrano a Rael quale sarebbe il suo destino se rimanesse lì in preda al suo desiderio mortale. Uno di loro gli dice che anche John è lì e gli consiglia di raggiungerlo. L’intero brano (di lunghezza inusuale per questo album ma assolutamente normale per un pezzo progressive) è, in realtà, una piccola suite in tre parti che racconta l’incontro con gli Slippermen (The Arrival), quello con John e il chirurgo della colonia che li convince a farsi tagliare il pene affinché le loro pulsioni cessino (A visit to the Doktor) e, infine, quello con il corvo (The Raven) che scende in picchiata e ruba a Rael il tubicino luccicante dentro il quale il dottore aveva riposto il pene reciso (definito windscreenwiper, che significa ‘tergicristallo’). Rael, disperato si rivolge a John chiedendo aiuto ma questi risponde che è pericoloso seguire il corvo e che è meglio rimanere nella colonia

Now can’t you see? Where the raven flies there’s jeopardy’

‘Non riesci a vedere? E’ pericoloso andare dove vola il corvo’

In questo brano notevole è l’assolo al synth di Tony Banks.

 

Rael si mette dunque da solo all’inseguimento del corvo, il quale dopo un po’ abbandona il tubo giusto in corrispondenza delle rapide di un fiume sotterraneo che scorre più in basso. Rael perde definitivamente la speranza di ritrovare la sua virilità perduta. La melodia della title track riprende (in The Light Lies Down on Broadway) annunciando l’imminenza del finale dell’intera storia. Il ritmo però è molto meno serrato, più malinconico, più rassegnato. Rael guarda in su e intravede uno spiraglio aperto verso il mondo esterno ma vede anche che la luce emanata da questa apertura diventa sempre meno forte, perché la stessa si sta chiudendo inesorabilmente. Per caso guarda verso il basso, fra le rapide, e vede suo fratello John nei guai (forse il corvo ha rubato il tubo anche a lui). Rael deve scegliere: uscire e respirare finalmente la libertà o salvare John che sta per annegare, quello stesso fratello che più volte lo ha ignorato e tradito. Il suo cuore non è più peloso e perciò sceglie John (‘Hey John!’), mentre le luci si spengono melanconicamente sull’apertura e su Broadway. In In The Rapids chitarra arpeggiata e voce duettano sommessamente mentre Rael racconta come, sfidando le rapide e la corrente riesca ad afferrare John in extremis e a portarlo a riva sano e salvo.  Gli dice:

‘Hang on John! We're out of this at last - Tieni duro John! Ne siamo usciti alla fine’

 

Voltandosi, per vedere se John stia bene, lo guarda in viso e si accorge che in realtà John non è più John. Il suo viso è cambiato ed è diventato uguale a quello di Rael che si vede come riflesso in uno specchio.  L’album termina con IT, una sorta di inno alla neutralità, alla non appartenenza ad alcun genere. Alla fine Rael si convince che qualsiasi cosa è neutra (IT) e che lui stesso è IT, che John è IT e quindi è Rael e che IT comprende entrambi. Il fatto di essere stato privato della sua virilità non risulta poi una condizione così spiacevole da sopportare. L’ultimo verso di The Lamb Lies Down on Broadway fa il verso ai Rolling Stones di “It’s only rock’n roll but I like it”, storpiandolo in un verso dal significato criptico ‘Cos it’s only knock and knowall, but I like it’,  che si potrebbe tradurre più o meno: ‘Perché IT è solo botta e risposta ma mi piace IT’.

 

Molte delle cose scritte ricalcano quanto da me sentito e elaborato durante gli innumerevoli ascolti di questa opera in  tutti questi anni, e da quanto venuto fuori da discussioni su questo o su quell’altro brano intercorse con altri fan dei Genesis e del progressive. Le mie sensazioni potrebbero non corrispondere (in parte) alla realtà delle cose. Interpretare i testi di Gabriel, a volte, è difficile e si può incorrere in malintesi o inesattezze. Il succo del discorso è però di certo questo. Spero di avervi incuriosito e di avervi anche lasciato la voglia di riascoltare questo splendido disco, o assaporarlo per la prima volta nel caso incautamente l’aveste conosciuto solo grazie a questo approfondimento.

 

Marco Lamalfa
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