Jazz-Rock: A Story, Settima Parte The Brecker Bros., K.Jarrett,T.Williams, Crusaders, Steps Ahead, G.Barbieri etc…
THE BRECKER BROTHERS
Randy e Michael Brecker, originari di Filadelfia, nati rispettivamente nel 1945 e nel 1947, sono stati “geneticamente” predisposti alla formazione di una stellare sezione di fiati, visto che il primo suona la tromba e il secondo suonava (purtroppo è mancato nel 2007) i sassofoni. Chi ha avuto voglia di leggersi i precedenti capitoli di questa storia, avrà trovato i loro nomi per molte volte: i due, infatti, sono parte integrante dell'epopea del jazz-rock e della fusion e hanno collaborato con gli artisti di punta del genere, prestando loro la grande perizia strumentale e la grinta di cui abbondavano. Tuttavia non si sono fatti mancare collaborazioni con artisti e gruppi fuori dall'ambito jazz: Blue Oyster Club, James Taylor, Paul Simon, Joni Mitchell e moltissimi altri! Il gruppo che fondarono nel 1975, The Brecker Brothers, appunto, si caratterizzava per un suono “ruvido”, molto elettrico, per gli effetti che i due utilizzavano generosamente per filtrare i rispettivi strumenti, ma anche per lo stile dei collaboratori di cui si circondavano, personaggi del calibro di George Duke, Hiram Bullock e Steve Khan, due chitarristi molto elettrici, Steve Gadd, batterista potente, Marcus Miller, bassista non bisognoso di presentazioni.
Questo non significa che i fratelloni proponessero composizioni di facile ascolto, o di scarso rilievo tecnico, tutt'altro: tentavano di coniugare una potente vena funky, sostenuta da poderose sezioni ritmiche, con complesse parti strumentali, rette, ovviamente, in maggioranza dai fiati. Dal 1975, anno di uscita del primo, omonimo disco, al 1981, i nostri partoriscono sei album, di qualità diseguale, anche a causa del tentativo di cavalcare il successo commerciale che, all'epoca, la fusion riscuoteva.Tra questi forse il disco più rappresentativo è il paradigmatico “Heavy Metal Bebop”, del 1978, registrato dal vivo con una formazione abbastanza inedita, che vedeva i fratelli accompagnati dallo “zappiano” Terry Bozzio alla batteria, da Barry Finnerty alla chitarra, Neil Jason al basso e dal “blues brother” Paul Shaeffer alle tastiere. Da questo lavoro ascoltiamo, esemplificatore di cosa la band sapesse combinare sul palco, Sponge, in una versione registrata nel 1980 in Svezia, piuttosto simile a quella presente nel vinile. Si consiglia anche Squids, che nella versione dal vivo è ancora più “storta” e dissonante. Se Heavy Metal Bebop ha segnato l'apice della carriera del gruppo, da non dimenticare è “Straphanging”, disco del 1981 e ultimo del periodo migliore (negli anni '90 sono usciti tre dischi non imperdibili) dei nostri: ascoltate la title track, una composizione di Michael B., il meno prolifico dei due, almeno dal punto di vista compositivo, che pare ne fosse particolarmente orgoglioso.
KEITH JARRETT
Parecchi storceranno il naso vedendo avvicinare il nome di Keith Jarrett ad un genere che tutt'ora, per le sensibili orecchie dei puristi, risulta indigesto. Tuttavia non bisogna dimenticare che Jarrett ha vissuto pienamente il periodo d'oro del jazz-rock, nel giro buono, quello di Miles Davis, per capirci, salvo uscirne spontaneamente per rituffarsi nella sua carriera “mainstream”. Vi segnaliamo un album, “Expectations”, del 1972, registrato con una formazione nella quale figurano Charlie Haden al basso, Paul Motian alla batteria (due dei suoi più affezionati collaboratori, con cui ha inciso i suoi celebratissimi dischi per la ECM), Dewey Redman ai sassofoni, Sam Brown alla chitarra e Airto Moreira alle percussioni. Come è ovvio, si tratta di musicisti “stellari” e il risultato è alla loro altezza, ma non aspettatevi nulla di facile. Purtroppo la rete è piuttosto avara di materiali da questo disco, a testimonianza del fatto che il Jarrett più “cliccato” è quello dei vari concerti di Colonia o degli standards. L'unico pezzo disponibile è The Magician In You, piuttosto morbido, secondo lo stile del nostro.
TONY WILLIAMS
Proseguiamo con il batterista Tony Williams, stimatissimo compagno del pluricitato Miles Davis, ma relativamente ad un periodo precedente alla svolta elettrica. Il nostro può a buon diritto essere considerato tra i fondatori del movimento jazz-rock, avendo iniziato a sperimentare il genere già negli anni '60. Infatti, nel 1969, con il suo trio Lifetime, di cui facevano parte l'organista Larry Young ed il grande John McLaughlin alla chitarra, produce il magnifico “Emergency”, un doppio album in cui si mescolano in modo egregio rock, R'N'B e jazz. Ovviamente, all'epoca, i lungimiranti critici bocciarono senza appello il disco, che, infatti, oggi è considerato una pietra miliare del genere. L'anno dopo il trio si trasforma in quartetto, con l'inserimento di Jack Bruce al basso e alla voce, e pubblica “Turn It Over”, seguito dai meno interessanti “Ego” e “The Old Bum's Rush”, falcidiati da continui cambi di formazione.
Una pausa di riflessione e Tony forma The New Tony Williams Lifetime, un quartetto con Tony Newton al basso, Alan Pasqua alle tastiere e il funambolico Allan Holdsworth alla chitarra. Con questa line-up escono nel 1975 “Believe It” e nel 1976 “Billion Dollar Legs”, poi anche questa formazione si scioglie e Williams riprende la sua carriera di grande jazzista, prematuramente interrotta da un attacco di cuore nel 1997. Per esemplificare lo splendido stile peculiare di Tony e dei suoi accoliti, proponiamo dal primo disco il pezzo omonimo Emergency, nel quale si dispiegano tutte le insospettabili potenzialità del trio, dal secondo lavoro un pezzo di John Coltrane, Big Nick.
CRUSADERS
Ci accingiamo ora ad esaminare un gruppo a cavallo tra il soul e il jazz, che rientra comunque a buon diritto tra gli obiettivi di questa lunga retrospettiva: i Crusaders. Per la precisione, diciamo che il gruppo, attivo a partire addirittura dal 1961 nell'area di Los Angeles, fino al 1971 si chiama programmaticamente Jazz Crusaders, onorando tale nome con una produzione legata all'hard bop, lo stile jazzistico più “à la page” all'epoca.
Membri fondatori sono Joe Sample (piano), Stix Hooper (batteria), Wilton Felder (sassofono) e Wayne Henderson (trombone). Il cambio di denominazione si porta dietro anche due nuovi membri, il chitarrista Robert “Pops” Powell e il bassista Larry Carlton. Anche se qui da noi la band non raggiunge una notorietà di massa, oltre Atlantico riscuote notevole successo, producendo una quarantina (!) di albums. E i “ragazzi” pare siano ancora in giro. Ecco Keep That Same Old Feeling e Ballad For Joe Louis a testimonianza dello stile a cavallo tra il soul e il jazz e dell'attitudine piuttosto morbida dei nostri “Crociati”.
STEPS AHEAD
È ora la volta di un altro gruppo piuttosto prolifico, che ci fa fare un salto avanti nel tempo, visto che inizia la propria produzione nel 1980. Parliamo degli Steps Ahead, creatura del vibrafonista Mike Mainieri, egregiamente spalleggiato, inizialmente, da Michael Brecker al sassofono, Steve Gadd alla batteria, Eddie Gomez al basso e Don Grolnick al piano. La formazione, in effetti, non sarà mai stabilissima, ma vedrà comunque l'alternarsi di musicisti di gran classe, gente come Dennis Chambers, Darryl Jones, Tony Levin, Bob Berg, Mike Stern, la crema della “fusion”, nome che, nel frattempo, aveva soppiantato la vecchia denominazione “jazz-rock”. I nostri producono, tra dischi in studio e dal vivo, un totale di 11 albums, l'ultimo nel 2005, ma la produzione più interessante a nostro parere è legata al primo periodo della loro attività, in particolare a “Steps Ahead” (1983) e “Modern Times” (1984), che mettono in mostra uno stile potente ed energico e una grande coesione interna, come testimonia il fatto che tutti i membri del gruppo partecipino all'attività compositiva. Di quanto sopra sono testimoni Islands, da un concerto del 1983 a Copenhagen, Northern Cross, sempre del 1983, un pezzo scritto dal batterista Peter Erskine (era nei Weather Report?), che nel frattempo aveva sostituito Steve Gadd e Beirut, in cui la formazione include, oltre a Mainieri e Brecker, il magnifico bassista Darryl Jones, il batterista Steve Smith e il chitarrista Mike Stern.
GATO BARBIERI
Un tipo particolare, uno fuori dal coro, ma di cui non possiamo non parlare, è Leandro “Gato” Barbieri. Argentino, nato a Rosario nel 1932, virtuoso sassofonista, il nostro partecipa fattivamente al movimento “free”, in particolare con la Liberation Music Orchestra condotta da Charlie Haden e nel seminale “Escalator Over The Hill” grandioso album collettivo con la conduzione di Carla Bley. La sua produzione solista, soprattutto "The Third World”, la trilogia composta dagli albums “Chapter One: Latin America”, “Chapter Two: Hasta Siempre” e “Chapter Three: Viva Emiliano Zapata” e lo splendido “Bolivia”, usciti tra il 1969 e il 1974, gli fruttò grande notorietà anche qui da noi. Si trattava di una fama non usurpata: Gato, infatti, riusciva a coniugare i suoni etnici della sua terra, con il suo sax tenore incalzante, possente e senza compromessi, in cui risuonava fortissima la lezione del meraviglioso John Coltrane. Forse siamo un po' fuori dalla rotta che abbiamo seguito in questa ormai pletorica retrospettiva, ma, per chi ha vissuto quell'epoca, la musica di Gato Barbieri era pienamente inserita in quel contesto, piuttosto nebuloso, che chiamavamo jazz-rock. La rete non è generosissima di pezzi dai dischi che ho evidenziato, ben più presenti ci sono estratti dalla colonna sonora del film “Ultimo Tango a Parigi”, di cui è autore, e certe deleterie collaborazioni con un noto cantautore romano.
YELLOWJACKETS
Nel solco di un approccio “morbido”, dedichiamo un attimo di attenzione agli Yellowjackets. Si tratta di un quartetto statunitense, formatosi nel 1981 e originariamente composto da Robben Ford alla chitarra, rapidamente rimpiazzato dall'alto-sassofonista Marc Russo, Russell Ferrante alle tastiere, Jimmy Haslip al basso e William Kennedy alla batteria. Nomi non particolarmente famosi, ma professionisti delle sale d'incisione di grande livello, che a tutt'oggi portano avanti il progetto, anche se il loro periodo d'oro si trova tra gli anni '80 e i primi '90. Se un difetto possiamo trovare alla loro produzione, numericamente abbondante (23 album), è la morbidezza molto easy listening, come era di moda negli eighties, del suono, cosa che però ha procurato loro un successo commerciale notevole. Tranciato questo giudizio, passo a presentarvi qualche brano, perchè è giusto che ognuno si faccia le proprie idee su basi concrete: Revelation, dal primo, omonimo disco, ma in versione live del 2008, con alla chitarra il mitico Mike Stern, aggregato alla band da quell'anno; e Tortoise and the Hare, dal loro sesto disco, “Politics”, del 1988.
Jeff Lorber, Stomu Yamashta, Casiopea, Al Jarreau, Gino Vannelli
Ci avviciniamo alla fine del nostro tragitto, con alcune segnalazioni sparse, relative ad artisti e bands degne di attenzione, ma non di una trattazione particolarmente estesa. Partiamo da Jeff Lorber, un tastierista bostoniano che ha dato il suo meglio con il suo gruppo, chiamato programmaticamente The Jeff Lorber Fusion. Si tratta di un'interpretazione un po' annacquata del jazz-rock, tanto piacevole quanto “facile”. In ogni caso l'LP “Soft Space”, datato 1978, è un prodotto che merita un ascolto: si ascolti Curtains, segnalando che all'album collaborarono nientemeno che Chick Corea e Joe Farrell.
Spostandoci in Giappone possiamo citare il percussionista Stomu Yamashta, noto ai più per la sua partecipazione al supergruppo Go, assieme a Steve Winwood, Al DiMeola, Klaus Schultze e Mike Shrieve, ma autore, con il suo gruppo East Wind, di alcune prove interessanti, segnatamente le colonne sonore di due films del 1973 e 1974, “The Man From The East” e “One By One”.
Sempre dalla terra del sol levante arrivano i Casiopea, quartetto (Issei Noro, chitarra, Hidehiko Koike, tastiere, Tetsuo Sakurai, basso e Takashi Sasaki, batteria) rigorosamente nipponico, anche nell'approccio molto pulito, preciso, diremmo anche virtuosistico, al genere. Per la cronaca, i ragazzi hanno prodotto qualcosa come 35 (!) dischi, che non aggiungono nulla alla storia del jazz-rock, ma hanno il pregio della piacevolezza. Ascoltate Galactic Funk, dall'album “Cross Point” del 1981, uno dei loro hits.
Una citazione se la merita senz'altro il grande cantante Al Jarreau, se non altro per la sua splendida cover di Spain di Chick Corea. Il pezzo, uno dei capolavori del pianista italoamericano, è contenuto nello splendido album “This Time”, del 1980, in cui Al si fa accompagnare da un gruppo di all stars, di cui cito almeno George Duke alle tastiere e Steve Gadd alla batteria. Bella sempre dallo stesso disco la funkissima Distracted. L'altro capolavoro del nostro si chiama “Breakin' Away” e risale al 1981. Anche questo album è suonato da un gruppo di musicisti di altissimo livello, tra cui figurano ancora i citati George Duke e Steve Gadd, ma anche il bassista Abraham Laboriel, i fratelli Porcaro e il chitarrista Steve Lukather: e contiene alcune gemme come la funambolica Roof Garden, la bossanoveggiante Easy e la virtuosistica cover di Blue Rondo a la Turk di Dave Brubeck .
Concludiamo con un artista italo-canadese che farà accapponare la pelle a molti puristi: Gino Vannelli, uno che ha venduto milioni di dischi “bubblegum”, ma che ha messo in commercio almeno un album che può tranquillamente trovare posto nello scaffale della fusion e, per di più, di un certo livello. Si tratta di “Brother To Brother” (1979), che conteneva l'hit single I Just Wanna Stop, ma anche pezzi notevoli come la title track, Appaloosa e The River Must Flow, che riecheggia i grandi Steely Dan.
La prossima puntata (l'ultima della nostra retrospettiva) sarà dedicata agli artisti che hanno continuato a produrre materiale interessante in tema di fusion, o jazz-rock che dir si voglia, negli ultimi anni, in cui la popolarità del genere è stata in forte calo, ai quali va, quantomeno, l'onore delle armi, per la coerenza (o l'incoscienza) manifestate.
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