Klaus Schulze SHADOWLANDS
[Uscita: 25/02/2013]
Tornare a discettare della figura del cavaliere cosmico per antonomasia, Klaus Schulze, è sempre un piacere. Le sue sonorità di stampo sperimentale e virtuosamente elettronico ci accompagnano da più di quarant’anni: dai primi, già notevoli, passi coi mitici Tangerine Dream agli Ash Ra Temple; dal fulminante esordio solistico di “Irrlicht” ai superbi “Cyborg”, “Timewind”, “Blackdance”, solo per fare dei pregnanti esempi; dagli esperimenti singolari e talora inquietanti, come la colonna sonora di un film porno di elegante confezione (!), “Body Love” del danese Lasse Braun, alle virtuose collaborazioni, una tra tutte quella con la sirena Lisa Gerrard dei Dead Can Dance, “Farscape”, alle ossessioni floydiane (“The Dark Side Of The Moog”) e wagneriane dell’ultima tranche della sua fulgida carriera, fino a quel sontuoso capolavoro che finora era il suo ultimo album, “Kontinuum”, del 2007.
“Shadowlands” s’inserisce in quella particolare sezione della sua aurea carriera che definiremmo meno spigolosa, più aperta a sonorità di gradevole ambient, meno ostica all’ascolto e venata di sinuose atmosfere orientaleggianti. Lunghissime suite snodantisi lungo sentieri di plastica efflorescenza elettronica, con autentiche immersioni entro simboliche foreste di sequencer e fruscii di aggraziati loops crepuscolari, a partire dalla splendida Shadowlights e proseguendo lungo le morbide e seriche vie di In Between, solo di rado attraversate da un pulsare lieve di larvate percussioni, fino alla traccia conclusiva del primo Cd, Licht Und Schatten, dal periodare quasi mistico, con la voce, ora controtenorile ora sopranile, che si sovrappone a un floreale tappeto di suoni steso sopra l’ultima luce del giorno.
La monumentale The Rhodes Violin apre il secondo Cd coi toni leggeri di una ninna-nanna cosmica, una sorta di danza dei corpi celesti nel vuoto proscenio universale, cinquantacinque minuti di pura fuga nell’indistinto dello spazio siderale. La conclusiva Tibetan Loops innerva strumenti tradizionali a canti di monaci tibetani, voci celestiali al gelido manto sonoro dei sintetizzatori, in un groviglio di cupa fascinazione avveniristica, entro una coltre cosmica ammaliante i sensi di sinuose fioriture neurali. Un lavoro che se non trascinerà all’entusiasmo coloro che non amano soverchiamente il Maestro berlinese, per via di un mood che un orecchio non partecipe al genere elettro-cosmico giudicherebbe eccessivamente iterativo, tuttavia riafferma, qualora ve ne fosse ancora bisogno, la classe cristallina e indelebile del cavaliere degli spazi interstellari.
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