Alfredo Bini – Hotel Pasolini a cura di Simone Isola e Giuseppe Simonelli
Un’autobiografia
Dietro le quinte del cinema italiano
“Hotel Pasolini” non sono le stanze dove Alfredo Bini ha discusso con Pier Paolo Pasolini sulle produzioni di film quali “Accattone” o “Edipo Re”, è molto di più: è uno squarcio rivelatore sulla storia del cinema italiano, fuori e oltre i luoghi comuni, dove alle consuete icone o all’ultima Nouvelle (S)vague sono stati dedicati fiumi di inchiostro anche insipido, spesso condito da gossip, con il produttore sempre dietro le quinte. Grazie all’impresa dei curatori Simone Isola e Giuseppe Simonelli, che hanno riordinato le carte di Bini (Livorno, 1926 – Tarquinia, 2010), i ricordi del produttore ci restituiscono una figura che più di altre ha praticato con coerenza un mestiere difficile, scommettendo più sulla cifra culturale di un regista o su un progetto che sugli esiti del box-office, contro le regole del conformismo nostrano e del potere politico degli anni ’60 e ’70 e ancora dopo. Produzioni ambiziose e artigianali, finanziariamente sostenibili: è questo il decalogo che Bini ha applicato alla sua biografia professionale di uomo libero, fiero di una spregiudicatezza senza limiti sul piano culturale, in aperta sfida ai dogmi della censura ministeriale imperante; o nella tenacia che impiega per associare gli autori alla sua Film 5 (da Mario Monicelli a Luigi Comencini, Age e Scarpelli) per sprovincializzare il mercato con l’impegno per opere di alto livello.
E’ del 1960 l’impresa di tradurre in pellicola la taciuta scabrosità dell’impotenza maschile svelata da Vitaliano Brancati ne “Il Bell’Antonio”: Bini supera il fallimento precedente di Carlo Ponti sullo stesso testo e affida la regìa a Mauro Bolognini (con la sceneggiatura di Visentini e Pasolini) ingaggiando un cast d’eccezione (Claude Brasseur, Claudia Cardinale, Marcello Mastroianni e Rina Morelli) ottenendo un successo inatteso e clamoroso con un premio al Festival di Locarno. Dopo quella prima sfida vinta, Bini incontra Pasolini, in crisi narrativa: ne calcola i rischi, data la convinzione corrente che il poeta sia inviso al potere e che per alcuni (Federico Fellini) sia un pessimo regista. Con “Accattone” (1961), l’azzardo biniano è vincente perché Pasolini accoglie i suoi consigli, ripensando da cima a fondo la regìa di “un lavoro scombinato”; di quell’impresa, Bini ricorda l’aneddoto della «carrellata a precedere su Accattone e Maddalena. Un movimento lunghissimo, oltre cento metri: nessuno sapeva come fare, ma poi risolvemmo il problema sgonfiando le ruote a un cassone americano».
Perché Pasolini si piega alle sollecitazioni del suo produttore? È questa l’essenza del rapporto che Bini instaura con le visioni del regista friulano, rivelando che «È proprio dal conflitto tra il regista e il produttore che nasce la professionalità, perché un fiume che non ha nessun argine non è più navigabile, porta solo distruzione.». Pasolini, dopo “Accattone”, migliora il rapporto con la macchina da presa e si impone per una ricerca sull’immagine e sui dettagli e accetta da Bini le soluzioni per giungere al miglior esito possibile: di qui la grandezza del produttore che incide nel linguaggio del regista; “Mamma Roma” (1962) ne sarà la dimostrazione, nonostante le quotidiane litigate fra Anna Magnani e Pier Paolo, che impone l’attrice contro il parere di Bini. La poetica filmica di Pasolini rivela la grandezza del regista al pari dei risultati attesi da Bini, da “Accattone” a “Edipo Re” (1967), influendo sull’immaginario collettivo e sul cinema dei primi anni ’60; basti pensare a “Ro.Go.Pa.G.” (1963), un film che racchiude quattro segmenti di registi diversi (Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti) e all’episodio de “La Ricotta” di Pasolini, (con Orson Welles protagonista, per soldi…) giudicato blasfemo, che Bini vorrebbe escludere in un primo tempo, ma si convince della sua forza dirompente non accettando compromessi con la distribuzione, per non rompere la coerenza narrativa del film.
Sarà poi un incidente provocato da Pasolini (con scazzottata tra i due) a far decidere a Bini di ritirare “Ro.Go.Pa.G.” dalle sale. Scrive il produttore: «Il danno per me fu consistente: la mancata circolazione di Ro.Go.Pa.G. significò buttare via trecento milioni, e rimettermi in pari fu molto faticoso. Io e Pier Paolo, però, non riuscivamo a portare rancore l’uno verso l’altro per più di un’ora. Subito tornava il piacere per la sfida e ci ricompattavamo. A causa della Ricotta saltò il film più bello che avremmo fatto insieme, “Padre selvaggio”, la storia di un capo tribù dell’Africa centrale divenuto medico a Londra, il quale, tornato nel suo villaggio, allo scoppio delle lotte tribali riassume nuovamente il ruolo che il destino aveva scelto per lui. Provo rabbia nel ripensare a quel progetto. Avevamo persino fatto un viaggio in Africa con Alberto Moravia e Dacia Maraini per trovare i posti dove girare.».
Poi, i Sassi di Matera, decisi da Bini, quale scenografia naturale de “Il Vangelo secondo Matteo” (1964), anticonformista nel suo messaggio cristiano e per gli attori scelti. Seguono i “Comizi d’amore” (1965, film verità, girato in presa diretta nel Sud Italia) e “Uccellacci e uccellini” (1966), la sperimentazione e la crisi dell’ideologia, con il corvo e Totò protagonisti. L’ultimo film di Pasolini prodotto da Bini è “Edipo Re” (1967), con riprese in Marocco e in Lunigiana, con Silvana Mangano, immensa protagonista: per il produttore resta l’opera più riuscita di Pier Paolo tra quelle realizzate insieme. I successivi progetti pasoliniani (“Teorema” e “Porcile”) non interessavano a Bini, che sul regista era giunto alla conclusione che «I film di Pasolini sono capaci di parlare tra le lingue del mondo. Io l’ho abbandonato quando ho cominciato a sentire odore di morte».
Del rapporto con Pasolini, Bini sintetizza bene la cifra culturale e politica, pur non essendo marxista ma uomo libero: «Io e Pasolini subimmo una lunga sequenza di carognate. La reazione alle nostre opere fu durissima, e mi investì personalmente. Pasolini aveva in sé un valore artistico oggettivo: era l’uomo che più irritava il quieto stagno italiano nel pieno del boom economico. La sua opera era la spia e insieme l’analisi di un momento preciso che stava cambiando la nostra società, il momento in cui le generazioni che erano uscite dalla guerra si avviavano verso una società consumistica che confondeva sviluppo e progresso. A cambiare totalmente erano le nostre stesse radici: il fatto di mettere in modo inequivocabile la società italiana di fronte a questo cambiamento, e forse anche a un suo tradimento, non poteva essere accettato. Non era accettabile che un marxista, pederasta e dunque già esecrabile, facesse la morale a tutti». Gli ultimi progetti realizzati dal produttore sono in scala minore, temi esotici ed erotici, o provocatori come il “Satyricon” (1969, per la regìa di Polidoro, con Don Backy, che gli costò molto per la querela di Fellini), rivelano l’impossibilità biniana nel voler cambiare un cinema che andava altrove. Gli anni che precedono la sua scomparsa sono segnati dall’indigenza: riusciva a vivere con 400 euro mensili e i proventi della legge Bacchelli, da lui richiesti nel 2003, arrivarono solo nel 2009, ad un anno dalla morte. Resta la sua fierezza, l’incrollabile capacità di non piegarsi mai e quell’autentica passione per la vita che ci trasmette in “Hotel Pasolini”.
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