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5 Giugno 2018 ,

Mark Kozelek MARK KOZELEK

2018 - Caldo Verde Records
[Uscita: 11/05/2018]

Stati Uniti

    

71lAg32nnYL._SX425_Con Benji” (2014) dei Sun Kil Moon qualcosa nel cammino artistico di Mark Kozelek è cambiato per sempre. Con quell’album si inaugurava un nuovo approccio al songwriting centrato sulla narrazione della vita dello stesso Kozelek, dei suoi familiari e delle vicende ordinarie dell’esistenza di chiunque, con il risultato di trasfigurare la semplice cronaca in poetica della malinconia. Con il seguito “Universal Themes” l’orizzonte di Kozelek si restringeva ulteriormente: dall’immersione in un tempo già trascorso ora il Nostro cantava quello presente con le spalle rivolte al passato e con una incontenibile verbosità che appesantiva l’apparato emotivo dei pezzi. Se un artista sceglie di intitolare un album con il proprio nome forse la ragione sarà quella di celebrare una sorta di ritorno a se stesso, la chiusura di un cerchio dopo tanto peregrinare. Ora che l’artista ha abbandonato il moniker Sun Kil Moon ci accostiamo al nuovo omonimo lavoro “Mark Kozelek” condizionati dall’aspettativa di trovarci di fronte ad un lavoro che tiri le somme di una carriera e che contenga qualcosa, in un certo senso, di definitivo. La verità è che invece siamo alle prese con l’ennesima tappa di uno stream of consciousness da seduta psicoanalitica in cui due accordi da ripetere in circolo all’infinito fanno da sfondo ad una giaculatoria di aneddoti ed episodi personali. Kozelek ha intrapreso un percorso autoreferenziale, musicalmente e letterariamente egocentrico, che lo ha condotto ad avvolgersi nelle fibre setose di un bozzolo che lui stesso si è creato e da cui non intende liberarsi.

markL’opener This Is My Town è il respiro assorto della notte con due chitarre che si sovrappongono creando una fragile tessitura, Live in Chicago è un ballo antico in cui sedimentano tracce di Will Oldham, mentre gli oltre dieci minuti di Mark Kozelek Museum sono una sfiancante litania folk. L’arpeggio di My Love For You Is Undying sarebbe suggestivo se non fosse un loop di oltre tredici minuti, ed anche quando la durata si riduce, come in Good Nostalgia, si ha la sensazione di stare all’interno di una stanza con troppo  poco ossigeno. Se 666 Post suona come il resoconto di una notte alcoolica, The Banjo Song è ossessiva nella sua interminabile reiterazione. Un disco che si compiace di rimestare in acque stagnanti ed in questo risiede la cifra di Mark Kozelek, nel bene e nel male: il passato deve essere un rifugio solo passeggero perché, finito il tempo del riparo, diventa una gabbia. 

 

Voto: 5/10
Giuseppe Rapisarda

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