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Lou Reed Oltre la morte e l’oblìo

2014

LouReedStickerQuesto che andate a leggere non è un profilo di Lou Reed con la sua biografia e la copiosa discografia: quello lo trovate nell'apposita rubrica di Distorsioni. E' un omaggio, pubblicato nel giorno in cui Reed avrebbe compiuto 72 anni, al suo immortale carisma di tre collaboratori del sito più un cultore dell'artista, composto dalle autopsie di un paio di intensi segmenti della sua parabola creativa, più una riflessione estemporanea sulla sua arte. Ma per cominciare l'allucinata, inedita cronaca di Lou Reed in persona del suo appuntamento con la morte, il 27 Ottobre 2013. Sperando non vi formalizziate per l'audacia dell'operazione, vi auguriamo buona lettura.

(Pasquale Boffoli)

 

 

 

1- Madrigale Dell’Ombra: Addio in quattro movimenti a LOU REED - di Rocco Sapuppo

                                            

                                                     SUNDAY MORNING

 

Mi sveglio. Mi trascino fino al lavabo di questa miserabile topaia, chissà come ci sarò finito… Una rapida lavata al viso, giusto come fanno i gatti, con due dita bagnate nell’acqua rugginosa e gelida. E’ una domenica mattina del cazzo, non so nemmeno che tempo faccia. Mi affaccio alla finestra: il solito cielo grigio, maculato di chiazze giallognole, striature color diarrea al posto delle nubi, e un fortore di piscio di gatto giù nei cortili. Nel condominio di fronte, una coppia di svitati mette in essere un concerto per urla e bestemmie in Do Maggiore; spari in lontananza; sirene della polizia al centro esatto dellou reed niente; barboni che tirano le cuoia sotto cartoni umidi; le speranze spezzate come ali di rondine di miriadi di generazioni; il sogno americano  trasformato in un film dell’orrore. E’ l’America, baby. Okay, mi dico, è tutto a posto. Sono a casa: New York, 27 Ottobre 2013. Sono Lewis Allan Reed, ho venticinque anni o forse settantuno. Accendo la radio. Una mia canzone gira in vortice nell’etere, la mia versione preferita di Sunday Morning, quella con i Velvet. La voce è morbida anzichenò, sarò stato strafatto, e chi se lo ricorda più? Pare appartenere a un altro mondo, ad altre stagioni del cuore, quando i suoi battiti si frangono sulla riva come esile fiato. Cosa sento? Che dice quel cazzone del dj? Come? Ma chi è ‘sto stronzo? Lou Reed morto? Ah, ah, ah! Assesto un calcio alla radio, facendola rotolare ai piedi della branda. Un topo sguscia da una crepa del muro e mi guarda. Sembra riconoscermi. Lo grazio. Anche i topi mi riconoscono e mi rispettano. Sono Lou Reed, l’angelo oscuro del rock.

 

 

                                               MEN OF GOOD FORTUNE

 

Lascio la misera stamberga e mi dirigo in centro. Ho bisogno di un par di whiskey per calmare i nervi: anche se uno scherzo di pessimo gusto, quella cazzata della mia presunta morte m’ha un poco turbato. E’ un meriggio piovigginoso, le strade, inumidite da un’acquerugiola lieve, paiono volti rugosi di vecchie battone da un dollaro. Un cane, ebbro Lou-Reed-on-stage-In-Brus-001di rogna, mi segue come un’ombra. Vi riconosco la mia morte futura. Così, la immagino, infatti, la Morte. Niente angeli del cazzo, o madonne lacrimanti: un povero cane rognoso che cerca di strapparmi brandelli d’anima coi denti. Ma c’è tempo. Ci sarà tempo, ancora, per spiccare dall’albero della mente un grappolo di buone canzoni, come frutti dorati fioriti dal fango del quotidiano; ci sarà tempo per lo spezzarsi del cuore in mille frammenti ossidati, nei doloranti crepuscoli umani.  Il cane, che già battezzo ‘Rocky’, mi segue fin dentro al bar, s’accoccola ai miei piedi di ‘morto presunto’, e mi squadra con occhi più che umani. Gli ordino un sandwich al tacchino. Sarà mio amico nei secoli dei secoli.  Attorno a me, ciò che rimane dell’umanità: vecchi barboni che si pisciano nei pantaloni di frusto fustagno; professioniste in disarmo che rimorchiano presso la porta del cesso al prezzo d’uno spinello; angeli ubriachi distrutti da notti di veglia presso il cadavere del mondo, le ali ridotte in logore giacche di pelle, lo sguardo spento di chi non ce l’ha fatta a non morire d’amore. Siamo le uniche scintille di vita, io e Rocky, in questo luttuoso velario di tenebra.

 

 

                                               WALK ON THE WILD SIDE

 

Camminiamo sul lato selvaggio della vita. E’ ciò che ho sempre fatto. Da ragazzo mi sottoposero a un trattamento da elettroshock per “curare” la mia affiorante omosessualità. Perbenisti, genitori spasmodicamente attenti all’altrui giudizio, persone comuni attaccate alle convenzioni piccolo-borghesi, maggioranze silenziose della minchia che costituisconoloulesterpatti il nerbo di questa nazione da avanspettacolo: vi avvolga come un manto seminato di spine il mio sonoro Fanculo! Ce l’ho fatta, malgrado voi. Persone di pregiata sostanza, quasi altro dall’umano elemento, hanno costellato la mia vita come albe ingemmate. Andy, dal tratto gentile e mannaro di stregone, genio di portata cosmica, creatore di pleiadi d’argento; Cale, raffinato cultore di sublimi armonie, cavaliere alchemico di tutte le solitudini, compagno d’armi nel nulla del severo cimento creativo;  Nico, angelo bruciato in mezzo al cielo come una fiaccola d’oro, cigno spezzato dal suo stesso biancore di neve nel pieno, stellare splendore del suo canto; Laurie, geometrico arcangelo, dodecafonico custode dei miei battiti presso le porte dischiuse dell’abisso. Sono Lou Reed, principe oscuro del rock, e la notte è il mio dominio.

 

 

                                              SATELLITE OF LOVE / WHO AM I?

 

Torniamo in albergo, io e Rocky, mentre la sera incombe come un manto di tenebra sottile sulle nostre vite. Le strade paiono lunghi coltelli affondati nella molle carne del respiro umano. Macchine sfrecciano nell’oscurità, disegnando ghirigori di nulla sui muri. Il sangue è appena uno spruzzo di vernice scarlatta nelle vene che anelano allo squarcio. L’amore è solo un satellite perduto nello spazio di una lacrima, una stella lontana che produce lucore lou-reed-diesdal suo stesso svanire. Ho il rock’n’roll, però, musica del demonio venuta ad accucciarsi ai miei piedi in una notte di pioggia; ho la poesia che mi scorre dentro come un rivo infuocato e solenne; ho il dono della parola e del canto, conficcato come un ago di bellezza nelle arterie; ho la visione dell’alba che mi veste di abiti d’oro quando ogni luce si spegne. Sono Lou, la stella oscura del rock. Una volta dentro, mi coglie una stanchezza di tutto l’essere. Mi adagio sulla branda. Tiro su una sorsata di whiskey, fa un freddo del cazzo. La radio funziona ancora. Ancora quella cazzata della mia morte, brani del mio repertorio che vanno e vengono, volteggiano come ali di farfalla nell’etere, nereggiano di veli funerei, brillano della luce definitiva del distacco. Rocky mi guarda con occhi più che umani, ma come nuotanti in gelide vasche di fiato. <<Andiamo, Lou, - sembra dirmi - sono  venuto a prenderti. Risalgo dai regni della parola indicibile per condurti tra i morti>>. Il tempo si raggela nell’attimo della fine. Conoscerò lo splendore o la cenere di ogni atto umano, il suo albeggiare e il suo farsi crepuscolo, vermiglia sera e luminosa, gelida notte. Addio, amici. Entrerò cantando nel mio plenilunio. Suonate le mie canzoni, non smettete. Continuate ad amarmi. (Lou)

 

                                                  

 

2- "I love Lighnin’ Hopkins" - di Bob Cillo

 

Lou Reed ha usato il rock’n’roll come mezzo espressivo pienamente maturo e consapevole traghettandolo, da una dimensione di mero “intrattenimento adolescenziale” ad autentica attitudine di vita. Lou, come gli MC5 ed altri musicisti della sua generazione, ha riscattato lo spirito di un rock’n’roll tradito dall’immagine di Elvis addomesticato con un’uniforme militare addosso, riportandolo alla sua naturale vocazione indomita elou reed 1972 anarchica. Lou, con la benedizione di Andy Warhol, ha conferito al rock’n’roll piena dignità di forma d’arte. Le decine di meravigliose canzoni che Reed ci ha lasciato dimostrano che la musica, se supportata da contenuti ed attitudine, può avere una carica comunicativa sconfinata anche in una forma estetica dalla semplicità disarmante. Lou ci ha insegnato che una canzone fatta con due accordi scarni, essenziali e reiterati, suonati da una o due chitarre, un basso ed una batteria, può trasmettere più di un’intera sinfonia pomposa e pretenziosa, anticipando senza colpo ferire l’estetica punk che avrebbe sgomitato arrogante  seminando vittime alla fine dei ‘70. La sua arte a qualunque livello era sempre permeata da una sobrietà ricca di stile. Lou Reed era una sorta di “magister elegatiae” della musica: il piatto della bilancia con cui misurare il “rock”lou reed dello star system, fatto di lustrini, paillettes, presentazioni altisonanti ed effetti di fumo che nascondevano e nascondono soltanto una sconcertante banalità ed una vacuità mentale imbarazzante. Da questo maestro abbiamo appreso il nostro modo di vivere e giudicare l’arte e la musica, indipendentemente dalle differenze tra i generi.

 

“I Really disliked school, disliked groups, disliked authority: I was made for rock’n’roll”  

“Detestavo in modo assoluto la scuola, detestavo i gruppi del college, detestavo l’autorità: ero fatto per il rock’n’roll” (Lou Reed)

 

Il SOGNO

 

Bob - Eravamo nella stessa stanza e mi toccava la grande responsabilità di mettere della musica di sottofondo in tua presenza... nel sogno sceglievo un disco di Lightnin’ Hopkins.

Lou - I love Lighnin’ Hopkins

Bob - Allora i sogni non sbagliano mai!

Lou - Sure  

 

(Alla Conferenza Stampa di "Time Zones",1997, Bari) 

                                                        

 

 

3- "New York": autopsia di un capolavoro - di Carlo Bordone  

 

 

new yorkPer chi scrive Lou Reed, Velvet Underground a parte, è sempre stato sinonimo di New York. Sì, lo so, messa così è una banalità spaventosa. Volevo dire: è sempre stato sinonimo di “New York”, in corsivo e virgolettato. L’album. Uno dei – qui lo dico, e non lo nego – più grandi dischi di rock’n’roll che un songwriter abbia mai pubblicato da quando è stato inventato il rock’n’roll. Una fenomenale raccolta di canzoni incazzate e poetiche, dirette e metaforiche, dolcemente sentimentali e acidamente rancorose, nella quale Lou arriva davvero al cuore, al nocciolo duro di quella magia che per sua stessa ammissione gli aveva salvato la vita, quando era un giovane punk ebreo della classe media che rimbalzava da un elettroshock all’altro.  La sera in cui ho saputo della sua morte, prima ho messo su “la Banana” e poi questo album. E non l’ho più tolto per una settimana. È New York, più dei lustrini e della polvere di stelle di “Transformer”, più del decadentismo di “Berlin”, più del rumore bianco di “Metal Machine Music”, più di qualunque altra cosa Lou Reed senza i Velvet avesse creato fin lì (e abbia più creato da allora) a definire l’essenza stessa della sua poetica. Che è, appunto, una poetica rock’n’roll. Una sintassi che si regge su tre accordi, ma dentro puoi metterci Buddha e Vishnu, Cartesio e Hegel, il Vietnam e Shakespeare, l’eroina e l’ultima grande balena americana, il sarcasmo più velenoso e il romanticismo più straziante. O meglio: lo puoi fare se ti chiami Lou Reed. New York è uscito all’inizio del 1989. Un quarto di secolo fa esatto, giorno più giorno meno. Periodo strano, quello, per i sopravvissuti dell’Epoca Aurea del rock. Stavano tutti tra i quaranta e i cinquant’anni eppure ci sembravano vecchissimi. Residuati bellici di guerre che noi ventenni di allora non avevamo combattuto, e che ci limitavamo a mitizzare. Gli anni Ottanta non erano stati un’era felice, artisticamente, per molti di loro.

 

tom_carson_reed_new_york_review_1989Dischi sbagliati, carenza di ispirazione, patetici tentativi di modernizzazione, giacche pacchiane e mullet orripilanti. La definizione “has-been” non si usava ancora, ma l’idea era quella. Poi proprio in quel 1989 arrivarono “Oh Mercy” di Dylan, “Freedom” di Neil Young e, appunto, New York. E improvvisamente quei santini del Grande Rock Che Fu tornarono ad animarsi, acquistando un significato e trovando spazio anche nelle vite di chi non avrebbe mai e poi mai rinunciato a cinque minuti di ascolto degli Dinosaur Jr o degli Spacemen 3 per buttare un orecchio su, che so, “Oh Yes I Can” di David Crosby. Il primo colpo della “brigata veterani” quell’anno lo sparò Lou Reed, e che botta che fu. Questo è un disco che, come raccomandava il suo autore, va consumato come si consuma un film o un libro. Tutto assieme, dalla prima all’ultima canzone. Non puoi saltarne dei pezzi, è un flusso continuo di immagini, flash, emozioni. Il parallelo potrà sembrare esagerato a qualcuno e scontato a qualcun altro, ma davvero se esiste un disco che fa pensare a un Ulisse joyciano trasposto nel linguaggio del rock’n’roll, beh è questo. Una giornata qualunque nella Grande Mela in compagnia di Lou/Bloom (o Lou/Dedalus, fate voi). Anche per questo si tratta di un’opera d’arte le cui pieghe si scoprono meglio in movimento, viaggiando da un posto all’altro. A New York ovviamente sarebbe l’ideale, ma può funzionare ovunque. Io, per esempio, New York l’ho conosciuto su una cassetta registrata da un amico, come tanti altri miei dischi della vita. Se “Forever Changes”  rimarrà sempre un viaggio in treno in Liguria e “Marque Moon” una giornata di sole in montagna come non ce ne sono più, New York è infiniti tragitti in autobus tra casa e l’università, infinite passeggiate per la Torino freddissima dell’inverno 1989, non ancora on the move verso un rinascimento che nessuno aveva il coraggio di sperare.

 

lou-reed eraNon so se esiste una città più distante da New York di Torino, ma a me bastava premere il play del walkman per essere lì. Nella Spanish Harlem livida, squallida e molto più pericolosa di quella di Mink DeVille, dove dei Romeo e Giulietta ispanici si inseguono tra sacchi della spazzatura, spacciatori di crack con l’Uzi, gang in lotta e corpi per strada: una New York in decadenza come l’antica Roma, che “sta affondando come una roccia nell’Hudson inquinato” (immagine memorabile quasi come la sinestesia di “then smells her perfume in her eyes”).  Oppure davanti al Lincoln Center, con il traffico congestionato fino alla Trentanovesima, lì dove Pedro vende rose di plastica sognando un incantesimo che lo faccia volare via, via, via da quel dirty boulevard in cui la sua infanzia sta appassendo. E’ una New York che non offre rifugi o consolazione, questa. La statua della libertà è diventata la “statua del bigottismo”, e sulle “masse povere, stanche e affamate” che chiama a sé ci piscia sopra. Hanno questa cosa meravigliosa, le canzoni di Lou Reed; questo stratagemma narrativo grazie al quale ti trasportano subito in medias res.

“Pedro lives out of the Wilshire Hotel/He looks out a window without glass/And the walls are made of cardboard, newspapers on his feet/And his father beats him 'cause he's too tired to beg”                           Oppure:

Caught between the twisted stars/The plotted lines the faulty map/That brought Columbus to  New York”

Oppure ancora la precisione descrittiva e geografica con cui attacca quella Walk on The Wild Side diciassette anni dopo (lo schema del brano, se ci si fa caso, è lo stesso) che è Halloween Parade:

There’s a downtown fairy singing ‘Proud Mary/as she cruises Cristopher Street/and some southern queen is acting loud and mean/where the docks and the Badlands meet

 

lou-reedPoi lo sguardo si allarga, come una macchina da presa, all’America e al mondo. Difficile trovare nell’opera di Lou Reed un lavoro più politico e combattivo di New York. Da vecchio bastardo sociopatico quale amava sembrare (che poi lo fosse davvero è un altro discorso) sviluppa la sua critica in chiave negativa, per contrapposizioni e sarcastiche domande retoriche, spesso con nel mirino i santoni rock con il loro paternalismo e il loro sussiego da patrocinatori delle cause giuste:

Does anyone need another faulty Shuttle/Blasting off to the Moon, Venus or Mars?/Does anybody need another self-righteous rock singer/Whose nose he says has led him straight to God?”

E’ il 1989, anno di cataclismi geopolitici, ma in quel momento Lou non lo sa ancora. Forse alcuni riferimenti presenti in tirate come Strawman e Good Evening Mr. Waldheim oggi dicono poco o nulla (chiedete a un venti-trentenne se sa chi sono Kurt Waldheim, Jesse Jackson, Louis Farrakhan, Jimmy Swaggart), ma un pezzo travolgente e traboccante di incitamento a reagire come There Is No Time sembra scritto adesso, per questi giorni di rassegnazione impotente:

non c’è tempo per ingoiare la rabbia/non c’è tempo per ignorare l’odio/non è il tempo di essere frivoli/perché il tempo sta finendo

E poi c’è quel racconto di Carver condensato in poche strofe che è XMas in February, il Vietnam che getta ancora la sua ombra sulla vita degli americani. Chi c’è oggi che sappia raccontare con la stessa delicatezza il ritorno a casa di un reduce dal Golfo, dall’Afghanistan, dall’Iraq o da qualunque altra guerra sbagliata?  Se non c’è un solo pezzo di New York su cui il tempo abbia fatto sentire il suo peso, ce ne sono alcuni che Lou Reed 1989viceversa appaiono ancora più pregnanti ascoltati retrospettivamente. Per esempio Beginnig of a Great Adventure, che nei miei scorrazzamenti cittadini col walkman mi sembrava solo un piacevole intervallo swingato di coccole domestiche. Il testo è in realtà uno dei più belli del disco, con payoff da scolpire nella pietra come “it’s no good trying to immortalize yourself”.

 

Nel brano Lou rimugina e fantastica su come sarebbe avere dei figli. Si immagina nell’autunno della vita come un vecchio che sbava sulla camicia, e pensa a quanto sarebbe bello avere qualcuno a cui trasmettere qualcosa di meglio che “rage, pain, anger and hurt”. Difficile non commuoversi, sapendo che non avrebbe lasciato progenie nonostante la grande storia d’amore che avrebbe cominciato da lì a poco, ascoltando una frase come:

“sarebbe divertente avere un piccolo me da riempire con i miei pensieri, un piccolo me o lui o lei da riempire con i miei sogni/ un modo per dire che la vita non è sprecata”. A way of saying life is not a loss

E a proposito di perdita, oggi è più chiaro lo stretto legame che unisce questo album al suo successore. Magic and Loss, tre anni dopo New York, fu un lungo requiem che venne interpretato come il primo vero confrontarsi dell’artista con il tema della mortalità e della fine. Ma i semi erano già ben presenti, anche se all’epoca era difficile coglierli. Non solo perché uno dei due amici perduti a cui sarebbe poi stato dedicato Magic and Loss (Rotten Rita, l’altro era Doc Pomus) fa una sua comparsa in absentia nel testo di Halloween Boulevard – che in fondo altro non è che una parata funebre – ma soprattutto per l’atmosfera elegiaca della straordinaria canzone con cui si chiude il disco. Dime Store Mystery, più che l’ultimo pezzo di New York, è il primo di Magic and Loss:

lou_reedThere's a funeral tomorrow/At St. Patrick's the bells will ring for you/Ah, what must you have been thinking/When you realized the time had come for you

E con una chiusa come questa non c’è altro da dire. Potrei continuare per varie decine di cartelle a parlare di un disco come New York. Ma come diceva Lou, “this is no time for circumlocution/this is no time per learned speech”. E’ tempo di prendere il walkman (ok, l’ipod), caricarci queste canzoni e andare in giro per la città. New York sarà lì che mi aspetta, ancora una volta, proprio dietro il primo dirty boulevard

 

 

 

4-  “The Raven”: Reed meets Poe - di Pasquale Boffoli

 

lou-reed-the-ravenQuando più di dieci anni fa, nel 2003, uscì “The Raven” di Lou Reed, non gli fu riservato certo un trattamento di riguardo. Un po’ la stessa cosa successa otto anni dopo, nel 2011, con molta più violenza, con”Lulu”, ultimo effettivo lavoro in studio dell’artista newyorkese, inciso insieme ai Metallica, prima della sua morte: si disse nel 2003 che Lou Reed da tempo non aveva più nulla da dire, che era un artista scontato ed obsoleto. Tutt’altra musica sulla stampa rock specializzata cartacea, che giustamente sottolineò un suo ennesimo colpo di coda creativo. Il tarlo oscuro di tanti fans reediani continuava allora ad essere paradossalmente,  ad anni luce da Heroin e Walk On The Wild Side,  un morboso attaccamento ai luoghi comuni, primo tra tutti quello secondo cui un musicista rock debba essere ‘maledetto’ in senso Rimbaud-iano a vita.  Lou Reed  ‘maledetto’ lo è stato realmente dai suoi esordi  con i Velvet Underground fino a “Coney Island Baby” per alcuni,  a “Street Hassle” per altri, “Magic & Loss” per altri ancora! In realtà Reed non ha mai smesso nei suoi albums e nei suoi testi di scandagliare il lato oscuro della società americana e della psiche umana, continuando ad incidere lavori scomodi e difficilmente inquadrabili: clichè logoro e scontato direte,  ma validissimo in questo caso. Il doppio “The Raven” é una ulteriore lapalissiana conferma  della sua perenne inquietudine esistenziale ed artistica: fonte d’ispirazione questa volta per Lou (che aveva comunque una lunga frequentazione con la letteratura) i racconti del poeta/scrittore   ‘maledetto’ per eccellenza della letteratura americana, Edgar Allan Poe, colui che ha scavato in tempi non sospetti nei recessi più oscuri ed sordidi dell’individuo! Lou sottolinea fortemente nelle note introduttive del disco la modernità dello scrittore:

E.A.Poe, sicuramente il più classico degli autori americani, è anche quello dalle peculiarità più attinenti al ritmo cardiaco del nostro nuovo secolo… il padre per me di William Burroughs ed Hubert Selby ; ..ossessioni, paranoie, azioni autodistruttive ci circondano costantemente. Io ho riletto e riscritto Poe per rispondere sempre alla stessa domanda: chi sono io?”.

 

lou reed Ed Who Am I?  é il titolo di uno dei brani più vibranti del lavoro, con il trepidante, tremulo timbro vocale di Reed! The Raven é il poliedrico sorprendente frutto della produzione e della creatività di due geni, Lou Reed ed Hal Willner, trasposizione musicale e recitata non fedele di “POE-Try”, lavoro teatrale scritto da Reed e diretto da Robert Wilson, commissionato dal Thalia Theatre di Amburgo, dove è andato in scena. Se si vuole afferrare il fascino sfaccettato dell’opera o tentare di farlo, bisognerebbe ascoltare la versione in doppio cd, quella che contiene i lunghi brani recitati da attori di grande spessore come Willem Dafoe, Steve Buscemi, Elizabeth Ashley ed Amanda Plummer;  non quella singola scevra dai contesti teatrali, contenente solo i brani musicali, che è consigliata invece a chi va di fretta e vuole andare al sodo. E’ praticamente impossibile capire il contenuto dei dialoghi  teatrali concitati e serrati, o dei monologhi di  The Fall Of The House Of Usher, The Raven,  Prologue (Ligeia), The Cask, A Wild Being From Birth,  The City in the sea/Shadow, ma non si sfugge ugualmente, per una misteriosa alchimia acustica e sensoriale, alla musicalità, al carisma ed al fascino sprigionati dalla voce rabbiosa ed insidiosa di Dafoe, da quella acuta e sarcastica di Buscemi, dalla solennità stentorea di Amanda Plummer, dalla emozionalità della Ashley. In molti di questi brani recitati Lou Reed si adopera all’Electronic Music, creando fondali rumoristici ed ambientali, è affascinante la dicotomia ed il contrasto atmosferico tra spoken words e brani musicali.

 

Venendo ai brani veri e propri, la vera ossatura di The Raven, c’è davvero di che esaltarsi: Lou Reed sforna ed esegue con i fidi Mike Rathke (guitars), Fernando Saunders (bass) e Toni Smith (drums) una serie di brani memorabili; i tesi e rabbiosi Blind Rage, Burning Embers, Edgar Allan Poe, e soprattutto I Wanna Know (The Pit and The Pendulum) che mette in scena un artista esasperato, impegnato in un gospel paranoico giocato sul filo dell’angoscia con il vibrante ausilio vocale dei Blind Boys Of Alabama, i primi di una lou reedlunga serie di ospiti illustri. Poi Guilty-Song, ancora incubi ad occhi spalancati, con il simpatetico sax alto di Ornette Coleman: insieme a materializzare ‘waves of fear’ metropolitani, proprio come ai tempi dei Velvet Underground! C’è da registrare anche un meraviglioso ritorno alla vena più decadente e lirica di Lou, in impagabili slow-songs come Guardian Angel, Vanishing Act, Call On Me (con la compagna  Laurie Anderson ospite alla voce), Change, sino alle stupende, ispiratissime, nuove versioni di classici loureediani come The Bed e Perfect Day. La prima è commovente nel recuperare con rinnovata umanità il feeling originario decadente;  una novella Perfect Day invece nella trascendentale interpretazione di Antony, l'incredibile vocalist scovato nel 2003 da Lou Reed nel circuito dei clubs newyorkesi, dotato di un timbro efebico inquietante! Ci si esalta ancora di fronte al denso strumentale A Thousand Departed Friends, vero manifesto della lucida ricerca sulle sonorità chitarristiche che Reed portava avanti già da molto tempo. Qui le corde di Reed e Rathke approntano un affresco elettrico di rara bellezza e potenza. Infine la violenta Fire Music, electronic music pura, ectoplasmi di Metal Machine Music in libera espansione: Lou Reed ha ancora voglia di osare, di sperimentare!  Fondamentale l’apporto in numerosi brani, per gli arrangiamenti degli archi, di Jane Scarpantoni e di Steve Bernstein per quelli dei fiati. 

 

Rocco Sapuppo-Bob Cillo-Carlo Bordone-Pasquale Boffoli

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