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26 Giugno 2016 , ,

The Monkees Truffe e delizie pop

2016

Monkees                         I N T R O

 

50 anni di Monkees. Beh, non proprio. Il periodo di vera, intensa attività del gruppo è durato meno di un lustro, ma nella girandola di celebrazioni che caratterizzano questi anni, l’occasione di festeggiare mezzo secolo dal debutto tele-discografico è troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire. A fine maggio è uscito per la Rhino RecordsGood Times!”, un nuovo ottimo disco ricco di collaborazioni, a vent’anni dal precedente, presupposto indispensabile per un sontuoso mega-tour a seguire. La domanda fatidica è: la storia dei Monkees è stata solo il frutto di un’operazione di marketing studiata a tavolino, di cinque ragazzetti del tutto privi di talento e guidati come marionette da esperti di marketing dello star-system americano, oppure in fin dei conti, c’era anche dell’altro, che oggi possiamo senza troppi sensi di colpa rivalutare?

 

Come costruire una band di successo (1965)

 

Dando vita a una delle storie che, almeno sulla carta, è tra le meno affascinanti e genuine del rock, agli inizi del 1965 la Screen Gems, divisione della Columbia del settore televisivo, pianifica la produzione di una serie (o telefilm, come si diceva allora) rivolta al pubblico dei teenagers, incentrata sulle gesta di un gruppo musicale. L’intento nemmeno Photo of Monkeestroppo nascosto è quella di replicare i primi film dei Beatles (“A Hard-Day’s night” e “Help”). Sono anni in cui alla TV americana cominciano già a scorrere scene di guerra, conflitti razziali e sociali e la Columbia non ha alcuna intenzione di aggiungere altra tensione al pubblico dei giovani americani. La parola d’ordine è: intrattenimento. Alla fine dell’anno vengono indetti dei cast per reclutare i quattro ragazzi per ricoprire i ruoli dei componenti del gruppo fittizio, protagonista della futura serie televisiva. Dalle selezioni vengono scelti, beninteso né per le loro doti di attori, né tantomeno per quelle di musicisti, Davey Jones, Micky Dolenz, Michael Nesmith e Peter Tork. Jones e Dolenz hanno già fatto qualche esperienza giovanile come attori, con il primo che ha alle spalle un dimenticato LP come cantante monkees-1966-publicity-photoeasy listening. Anche gli altri due hanno delle velleità da musicisti, ma vantano trascorsi pressoché irrilevanti. Nel ruolo che poi è stato assegnato a Tork sta per essere scelto un giovanissimo Stephen Stills, con presumibile effetto a catena, in tal caso, su tutta la storia della west coast (i Buffalo Springfield di sarebbero mai formati? E che ne sarebbe stato dei C.S.N. & Y.?). Pare che anche il futuro chitarrista e seconda voce dei Love Bryan MacLean abbia partecipato alle audizioni. Del resto i talent DJonesscout sono andati non a caso a cercare i candidati tra i giovani della nascente comunità del Laurel Canyon, frequentata dal futuro gotha della west-coast. La formazione dei Monkees, questo il nome scelto, con tanto di voluto errore in linea con quello di altre band assai in voga (Beatles, Byrds, Cyrkle), viene quindi così delineata: il bello del gruppo, Davey Jones (foto a destra), di origini inglesi, nel ruolo di cantante, seppur confinato ai brani più romantici ad uso e consumo delle teen-agers; Nesmith alla chitarra, già autore di alcuni dischetti a nome Michael downloadBelssing, ma che con il suo inseparabile cappello di lana sempre ben calzato sulla testa, viene svilito a una specie di giullare del gruppo; Peter Tork (foto a sinistra) viene messo al basso e infine Dolenz (foto sotto a destra), del tutto al digiuno con qualsiasi strumento, relegato alla batteria, anche se si impone presto come voce solista dei brani di maggior successo.

I mesi seguenti vengono impiegati a studiare i copioni e a prendere confidenza con i rispettivi ruoli musicali, più che altro per esigenze di scena. Per la musica infatti la Columbia affida la direzione a Don Kirshner, il quale non ha inizialmente alcuna intenzione di coinvolgere i veri Monkees. Il vero motore della band è rappresentato dalla coppia Tommy Boyce e Bobby Hart, autori di molti dei brani, responsabili dei primi demo, nonché insieme con i musicisti della propria band, anche di gran parte delle tracce strumentali e dei backing vocals. Il repertorio viene impreziosito dai brani che Kirhmer commissiona, Micky-Dolenz-the-monkees-17378598-640-480con notevole fiuto, anche a un gruppo di giovani autori emergenti come Carole King e Gerry Goffin, Neil Diamond e Neil Sedaka. Alle registrazioni che frutteranno le canzoni destinate ai primi dischi partecipano anche musicisti di primo piano come Glenn Campbell, James Burton e Al Casey. Il contributo effettivo dei Monkees si riduce quindi alle parti vocali soliste, alternate ad arte nei vari brani, oltre a qualche coro e a qualche sporadico intervento strumentale. Già da subito però Michael Nesmith scalpita per avere più spazio e riesce a far prendere in considerazione un paio di brani scritti di suo pugno che finiscono poi sul primo LP del gruppo.

 

“Hey Hey, siamo i Monkees!” (1966)

 

7''CLARKSVILLELa macchina promozionale della Columbia non lascia niente al caso e quando il primo episodio di “The Monkees” non è ancora stato trasmesso, il singolo di debutto, Last Train To Clarksville, è già stato recapitato ai disck-jokey di quasi tutte le radio degli Stati Uniti. La band si presenta con quella che rimarrà una delle canzoni migliori della loro carriera. Ispirandosi nemmeno troppo velatamente a Paperback Writer dei Beatles, Boyce & Hart scrivono un classico degli anni '60, che con il suo incedere jingle-jangle avrebbe fatto un’ottima figura anche nel repertorio dei primi Byrds. Il singolo esce ad agosto e raggiunge ben presto la vetta della classifica americana e ci rimarrà per ben 13 settimane. Quando il 12 settembre del 1966 la NBC-TV manda in onda la prima puntata della serie che li vede protagonisti i Monkees sono già molto popolari. Tutto gira per il verso giusto. Per quanto la critica sia sempre rimasta un po’ perplessa dalle strampalate avventure televisive del gruppo, il pubblico più giovane mostra di gradire, garantendo alla serie un‘audience altissima. Dopo poche settimane viene pubblicato anche il primo omonimo LP1album. L’apertura e la chiusura del disco sono affidate, quasi come si trattasse di un episodio televisivo, a due versioni della sigla/signature song della band: Theme From The Monkees. In scaletta trovano posto, a fianco di un lotto di canzoni scritte prevalentemente da Boyce & Hart, anche due canzoni di Nesmith: Papa Gene’s Blues e una Sweet Young Thing in odore di garage-rock, quest’ultima scritta insieme alla coppia Goffin e King. Benché si tratti di pop pesantemente preconfezionato, indubbiamente il disco funziona e regge abbastanza bene i suoi 50 anni.

Per sfruttare il momento favorevole l’entourage della band impone ritmi serrati, tra le riprese per gli episodi del telefilm, sotto la direzione dei registi Bob Rafelson e Bert Schneider, le apparizioni promozionali radiofoniche e televisive e le sedute negli studi di registrazioni, dove seppur con il forte ricorso al consueto stuolo session men, i Monkees monkeentro la fine dell’anno completano le registrazioni di brani sufficienti per un secondo album. A dicembre, dopo un anno di prove, la band viene ritenuta in grado di affrontare anche la prima tournée. Le richieste del pubblico di vedere in carne ossa su un palco i propri beniamini si fanno ormai sempre più pressanti e non bastano più le loro prime sporadiche esibizioni, spesso nel corso di spettacoli TV anche al di fuori della loro sit-com, in cui però i ragazzi si limitano quasi sempre a mimare di suonare e cantare. L’atmosfera dei concerti, grazie al contributo di migliaia di ragazzine urlanti pressoché dall’inizio alla fine di ogni esibizione, mette comunque in secondo piano i limiti strumentali I-M-A-Believer-covere vocali dei veri Monkees. Neil Diamond, già nel team di autori del gruppo, contribuisce per la prima volta al repertorio con un altro pezzo memorabile: I’m A Believer. Il brano in questione, dalla curiosa struttura che alterna una strofa vagamente garage guidata dall’organo e un ritornello di chiara ispirazione gospel, raggiunge la vetta delle classifiche americane e diventa famosissimo anche in Italia nella versione tradotta da Caterina Caselli (Io Sono Bugiarda). I’m A Believer godrà anche un altro fortunato ripescaggio, oltre un trentennio dopo, grazie alla cover degli Smash Mouth, nemmeno troppo diversa dall’originale, inserita nella colonna sonora di “Shrek”.

 

Monkees… e Ancora Monkees (1967)

 

LP2Il secondo disco viene pubblicato nei primi giorni del 1967, con il gruppo impegnato nelle prime date del tour e si intitola correttamente “More of The Monkees”, essendo composto di canzoni che sono in gran parte il frutto delle prime intense sessions. La produzione è attentissima a assecondare le sonorità del momento, seppur badando ad evitare certe stramberie e le sperimentazioni tipiche del periodo, per non disorientare il pubblico dei giovanissimi. Nesmith scrive un efficace riff per un nuovo brano garage rock psichedelico di Boyce & Hart, Mary Mary, ma viene ritenuto ancora troppo acerbo come chitarrista per inciderlo. Un’altra versione viene inaspettatamente registrata, ma escludendo al solito Nesmith dai crediti, anche dalla Paul Butterfield Blues Band e vede la luce qualche mese prima di quella dei Monkees, sul classico loro album “East West”. Un sample di Mary Mary riemerge a fine anni '80 nell’omonimo brano dei Run DMC. Un'altra felice sortita in ambito garage è I’m Not Your Steppin’ Stone (che benché venga relegata sulla b-side di I’m A Believer, gode di un massiccio airplay radiofonico), altro prodotto della premiata ditta Boyce&Hart, già incisa con successo da Paul Revere & The Raiders. Non è un caso che addirittura Jimi Hendrix ne incida una bizzarra versione, poi uscita su un singolo postumo del chitarrista. the_monkees-a_little_bit_me_a_little_bit_you_s_1Rivelando un notevole fiuto, Mickey Dolenz assiste infatti a una sua esibizione a New York e convince il proprio entourage ad ingaggiarlo per aprire i concerti del tour estivo dei Monkees. L’abbinamento comunque non funziona granché e Hendrix, frustrato dal trovarsi di fronte un pubblico di ragazzini in attesa dell’attrazione principale e per niente interessati alla sua musica, si chiama fuori dopo poche date.

Per non perdere l’attimo favorevole l’équipe produttivo dei Monkees affida, in tutta fretta, alla penna di Neil Diamond anche il nuovo singolo. La leggera A Little Bit Of Me, A Little Bit Of You  -francamente piuttosto simile alla Cherry Cherry del suo autore- è un altro hit. Per la prima volta Nesmith riesce a far inserire un suo brano, la valida The Girl I Knew Somewhere, quanto meno sul lato B del singolo, ma non basta a tenere a freno il ragazzo.

 

I ‘Veri’ Monkees (1967)

 

hqdefaultNonostante il successo i quattro ragazzi, con Michael Nesmith (foto a sinistra) in testa, vivono con crescente disagio il loro ruolo di veri e propri pupazzi nelle mani dei discografici della Screen Gems. Durante un’ intervista Nesmith decide dunque di rivelare a tutti che, per volere dei discografici e contro la loro volontà, i Monkees non hanno mai suonato nei propri dischi. Non è ben chiaro se (anche) questa mossa sia stata studiata a tavolino per far acquisire alla band una maggior considerazione da parte del pubblico più adulto, fatto sta che la casa discografica fa buon viso a cattivo gioco e permette ai ragazzi di avere un ruolo più attivo nella propria musica. Il produttore Kirshner, additato come il grande burattinaio dell’operazione, si fa da parte e si consola con il successo che ottiene, qualche mese dopo, con Sugar Sugar (Honey Honey), grande e unico hit di un’altra sua celebre creazione, gli Archies, una formazione-fantasma la cui immagine era affidata addirittura ad un cartone animato, con i dischi suonati e cantati da anonimi turnisti. Stavolta Kirshner non deve nemmeno prendersi la briga di discutere con delle persone reali!

Prima che la prima stagione del telefilm giunga al termine la casa discografica pubblica addirittura il terzo album “Headquarters”. Nonostante il sempre rilevante ruolo dei sessions men e autori esterni, è il primo disco dei Monkees in cui la band suona per davvero e con una certa sorpresa è il miglior disco fino a quel momento. L’ispirazione dei Beatles LP3rimane pesante, ma è innegabile che l’album sia ricco di buone canzoni pop (I’ll Spend My Life With You e You Just May Be The One). Colpiscono in particolare le canzoni di Nesmith (la You Told Me posta in apertura della prima facciata), i brani scritti per la voce di Dolenz, ma anche il contributo degli altri membri si rivela valido. Lo stesso Davey Jones, solitamente alla voce di brani zuccherosi e piuttosto insulsi, se la cava egregiamente, insieme a Tork, in Shades Of Grey e pure Pete’s Shake, con il bassista protagonista sin dal titolo, è una gemma pop da riscoprire. Questo è anche il primo loro album a non reggersi su dei singoli di successo, che anzi stavolta praticamente non ci sono. Sul lato A del singolo che viene pubblicato per l’estate, la casa discografica piazza infatti Pleasant Valley Sunday, un altro eccellente brano di Carole King e Gerry Goffin che, così come il retro Words (già incisa dai Leaves), non sono su “Headquarters” e dovranno attendere sino alla fine dell’anno per comparire su un 33 giri. Il pubblico sembra premiare il coraggio dei ‘veri’ Monkeees, continuando a comprare i loro dischi, anche se l’ultimo 7''DAYDREAMsingolo è il primo a non raggiungere il n° 1 delle classifiche. All’inizio dell’autunno parte la seconda stagione della sit-com, che riscuote inizialmente il consueto successo. Il tour de force cui vengono sottoposti i ragazzi è pazzesco.

A ottobre esce l’ennesimo 45 giri Daydream Believer, che al di là di un testo piuttosto criptico e senza dubbio non rivolto ai teen-agers, ritorna su sonorità più squisitamente pop e rassicuranti. Sembra quasi che la casa discografica si riservi le carte più commerciali per il formato breve, lasciando un po’ più libero il gruppo di solcare territori (pur leggermente, s’intende) più arditi sugli album.

LP4Un mese dopo è infatti già il tempo per un altro album: “Pisces, Aquarius, Capricorn and Jones Ltd.”, ed è un altro centro. Si conferma l’inaspettata solidità dei ragazzi, che oltre a fare (quasi) tutto da soli, estendono ancor più la tavolozza delle proprie influenze musicali. Alcuni brani, come Door In The Summer, la stessa Words e soprattutto l’ottima My Love Is Only Sleeping, risentono meno timidamente che in passato delle influenze psichedeliche in voga in quei giorni. La scrittura di Nesmith mostra una più marcata tendenza verso il country, mentre in Star Collector spunta addirittura un moog. Sul versante più tradizionalmente pop/rock si fa ricordare l’opener Salesman (una via di mezzo tra la Taxman dei Beatles e She’s About A Mover del Sir Douglas Quintet), che vede i ragazzi affrontare il tema delle droghe. I tempi stanno cambiando e gli abiti da teen-idols cominciano a stare stretti anche ai Monkees. Questa nuova aria da hippie ‘light’ si respira anche in Daily Night, che allude alla famosa rissa sul Sunset Strip di LA. Il ricorso a autori esterni viene anche stavolta centellinato, per quanto spicchi un giovanissimo Harry Nillson con Cuddly Toy. “Pisces…” viene generalmente considerato il miglior disco della carriera del gruppo ed è forse solo a causa dell’imbarazzante concorrenza di numerosi dischi memorabili usciti in quell’anno di grazia che era il 1967, che non viene ricordato come uno dei migliori dischi del periodo.

LP5Il quinto album in meno di due anni è “The Birds, The Bees & The Monkees” (pubblicato nella primavera del ’68) e evidenzia come certi ritmi siano, almeno qualitativamente, proibitivi anche per i pur volenterosi membri della band. Si tratta di disco tutto sommato non spiacevole che vede però tra i suoi brani migliori due canzoni già edite. Oltre a recuperare infatti Daydream Believer (stranamente esclusa da “Pisces…”), il brano principale della scaletta è senza dubbio Valleri, scritta da Boyce & Hart e risalente, in una prima versione trasmessa anche nella sit-com, alle frenetiche sessions per i primi due dischi. La nuova registrazione è impreziosita da un’introduzione, affidata al turnista Louie Shelton, di chitarra flamenco. E’ l’ultimo singolo dei Monkees a raggiungere i piani alti della classifica dei singoli. Tra gli altri brani, invero piuttosto leggerini, spiccano anche Tapioca Tundra, stralunata ballata country-psych scritta da Nesmith e Writing Wrongs, che nei suoi 5’, in mezzo a una trama pop a velocità rallentata dagli effetti lisergici, presenta una parte centrale con un piano deragliante che già odora di anni '70. Si ha comunque la sensazione che i vari componenti della band comincino ad andare ognuno per conto proprio.

 

Sogni Perduti – Head (1968)

 

Head_film_posterGiunti alla fine della seconda stagione e nonostante risultati tutto sommato confortanti, la Screen Gems decide comunque di porre fine alla sit-com. Nei freddi calcoli dei produttori appare chiaro che i Monkees abbiano dato il meglio di quello che potevano dare e prima che i teenager si stufino di loro, si preferisce chiudere l’esperienza televisiva. La band concepisce, pur tra i dubbi all’interno del team e dei membri stessi (Tork su tutti), il proprio progetto più ambizioso: il film “Head” (in italiano, significativamente, “Sogni Perduti”). Se la pellicola appare non discostarsi troppo dallo schema del telefilm, con i numeri musicali alternati alle scenette non-sense dei membri del gruppo, in realtà si tratta dell’estremo tentativo dei Monkees di affermarsi come artisti veri e consapevoli dei tempi che stanno vivendo. Il film è diretto e scritto (con il contributo di Jack Nicholson) dal collaudato Bob Rafelson, altra anima inquieta che da lì a poco troveremo come co-produttore di "Easy Rider" e monkees-head-comicdietro la macchina di un cult movie sulla disillusione del sogno americano come “Five Easy Pieces” (da noi “Cinque Pezzi Facili”). In mezzo a crude scene prese direttamente dai servizi sulla guerra nel Vietnam, troviamo i quattro Monkees impegnati infruttuosamente nel tentare di emanciparsi dagli opprimenti tentacoli dello show-business. Emblematiche sono le scene in cui il ragazzi suonano su un palco prima di venir travolti da un gruppo di ragazzine isteriche che si ritrovano tra le mani dei pezzi di manichini, oppure quando, ridotti alle dimensioni di lillipuziani, vengono risucchiati dall’aspirapolvere di un discografico in formato gigante (una chiara allusione al tirannico Kirshner). Molti ricorderanno il film per il breve cameo di Frank Zappa, che fuori dagli studi di Hollywood incontra la band e gli si rivolge parlando per il tramite di una mucca tenuta al guinzaglio. La musica non è niente male, anche se le canzoni nuove sono solo sei, tra le quali spicca soprattutto l’ottima The Purpoise Song (ancora di Goffin e King), zuccherosa melodia intrisa di sapori lisergici. Se ne ricorderanno anni dopo i Church, che la rivisiteranno sul loro cover album “A Box of Birds”. Long Title e Circle Sky flirtano meno timidamente che in passato con il rock psichedelico e potrebbero ben figurare anche sui dischi di garage band assai più considerate del tempo. Il film è però un flop epocale. Il tentativo di accreditarsi negli ambienti della controcultura fallisce e ottiene il solo risultato di indurre l’FBI, in evidente vena di caccia alle streghe, a aprire un fascicolo anche sui Monkees, quali pericolosi musicisti anti-sistema. Il pubblico più giovane rimane frastornato e volta le spalle alla band.

 

E poi rimasero in tre… anzi in due (1968-1969)

 

LP6La delusione porta Peter Tork a chiamarsi fuori e anche i tre membri rimasti non mostrano troppo entusiasmo nel tirare avanti la baracca. Per cercare di recuperare il terreno perduto i Monkees tornano in pista all’inizio del 1969, con “Instant Replay”, dal titolo ancora una volta emblematico, che recupera un po’ di brani scartati i precedenza, tornando più che altro a ricorrere in maniera massiccia sul solito collaudato team di autori. Tear Drop City (anche su 45 giri, benché dalle scarse vendite) ancora scritta da Boyce e Hart, risale così al ’66, mentre I Won’t Be The Same Without Her (dalla penna di Goffin e King, che comunque rimane tra le migliori del lotto) è dell’anno successivo. Il resto del programma consiste in brani che danno l’idea di provenire da progetti solisti dei vari componenti, con un Michael Nesmith al solito più intraprendente degli altri. La stessa copertina, che assembla foto individuali dei tre Monkees rimasti, dà l’idea di un’operazione raccogliticcia e anche i risultati commerciali sono mediocri.

LP7Con la consueta sincerità il disco successivo si intitola “The Monkees Present Micky David Michael”, a conferma del clima da separati in casa. Il sound generale è stranamente dimesso e di per se’ questo non sarebbe necessariamente un male. Nesmith offre per l’ultima volta alla causa altri gradevoli brani che come di consueto ondeggiano tra il pop e il country. In altri tempi pezzi orecchiabili come Listen To The Band e Good Clean Fun avrebbero forse ottenuto maggior successo, ma ormai, a fine ’69, i Monkees non hanno semplicemente più un pubblico cui rivolgersi.

I Monkees sono al capolinea, ma Micky e Davy sembrano non accorgersene, portando ancora avanti per un po’ la vecchia ragione sociale. Michael Nesmith invece semplicemente prende atto dell’evidenza, rendendo ufficiale un divorzio che era già nell’aria da tempo. La sua prolifica carriera solista era per la verità già iniziata, piuttosto in sordina, con un bizzarro disco del ’68, pressoché strumentale, “The Wichita Train Whistle Sings”, in cui venivano rilette, con abbondanza di fiati, brani non tra i più noti del gruppo di provenienza. Le sue qualità di autore vengono notate anche da altri artisti e sembrano garantirgli una solida carriera in proprio. La sua Different Drum viene infatti incisa dagli Stone Poneys, il primo gruppo di Linda Ronstadt.  

 

L’inevitabile scioglimento e i primi progetti solisti (1970-1974)

 

downloadIl produttore Jeff Barry spinge nel contempo i due membri restanti, Dolenz e Jones, a dar vita all’ultimo, modestissimo capitolo della prima parte della carriera dei Monkees: “Changes”. Persa anche la guida di Nesmith, che quanto meno garantiva il livello minimo, i due ex-ragazzi rimasti non trovano niente di meglio che affidarsi a insipide canzoncine in vena di bubblegum. Le uniche cose da salvare, con un po’ di buona volontà, sono gli scarti dei dischi precedenti. La sola Oh My My viene pubblicata su singolo, ma riesce solo a affacciarsi ai piani più bassi della top 100. E’ il preludio allo scioglimento, con il marchio storico che, dopo ben 9 album in nemmeno 5 anni, viene messo in soffitta per oltre quindi anni.

MNesmithFirstNBNel frattempo Michael Nesmith forma la First National Band e si accasa all’Elektra, dove trova inizialmente terreno fertile per le proprie ambizioni di cantautore dalla soffice vena country. Nonostante il tiepido successo di Joanne (un singolo da top 20), i primi pur considerati album della National Band (“Magnetic South” e “Loose Salute”, entrambi del ’70), seppur considerati come tra i primi esempi di country-rock, non vendono tantissimo. Le uscite successive faranno purtroppo di peggio. Nesmith è comunque attivissimo per tutti gli anni 70. Alla First, segue una Second National Band (di impatto commerciale non superiore), che si distingue per l’occasionale presenza di José Feliciano alle congas (!). Nel ‘72 gli viene affidata anche la direzione di una sotto-etichetta della Elektra, la Countryside. Il successivo passaggio del timone della label da Jack Holzman a David Geffen, porta però alla rapida chiusura del progetto. Come produttore è responsabile di eccellenti dischi come “Valley Hi” di Ian Matthews e di “L.A. Turnaround” di Bert Jansh.

Se Nesmith non raggiunge forse il successo sperato, agli altri ex-Monkees non va certo meglio. Davy Jones, che pur pochi anni prima era tanto popolare da indurre un giovane cantante inglese omonimo, per evitare confusione, a prendere in prestito come nome d’arte quello di un tipo di coltelli (i “Bowie”), alle soglie dei 70 è già un personaggio di 26206799_350_350secondo piano, buono solo per qualche comparsata televisiva ed escluso dal giro che conta. Solo la Bell lo mette sotto contratto, sperando di farne una sorta di Tom Jones, ma anche se raccoglie subito un hit minore (Rainy Jane, del ’71), viene scaricato dopo un solo inutile e leggerissimo album omonimo. Di Pete Tork si perdono le tracce, mentre Micky Dolenz si contenta di ruoli marginali come attore.

 

Periodiche inevitabili reunion (1975-2016)

 

monkess86-87Nel 1975 la Capitol tenta una prima volta di rimettere in piedi i Monkees, chiamando a raccolta Dolenz, Jones e i due vecchi autori Tommy Boyce e Bobby Hart, che per la prima volta ci mettono la faccia. Il progetto partorisce un unico album, che non potendo sfruttare il fortunato nome di un tempo, sfoggia in copertina i nomi dei quattro cantanti. Il risultato delle vendite è di gran lunga inferiore alle aspettative. Il disco presenta nuovi non indimenticabili brani di Boyce e Hart, a fianco di alcune cover di brani anni 60 di cui nessuno sentiva il bisogno. Per rispettare gli impegni contrattuali presi i quattro vengono comunque portati in tour fini agli inizi del ’77. Qualche anno dopo riemergeranno alcune registrazioni di un concerto tenuto a Tokyo nel ’76 (In Japan, dell’81). Dopo anni di monkees-davy-jones-dead-at-66-horizontal-large-galleryoblio, a metà anni '80 si assiste a un rinnovato interesse verso i Monkees: la Rhino ripubblica una prima volta tutti i loro primi LP e MTV rispolvera gli episodi delle due stagioni della vecchia serie televisiva, perfetta per l’epoca dei video-clip. E’ il preludio all’inatteso ritorno. L’antologia doppia “Then and Now… The Best of The Monkees” celebra i 20 anni dal debutto affiancando ai singoli di maggior successo anche alcune nuove tracce di Dolenz e Tork, tra cui This Was Then, This Is Now (rifacimento di uno sconosciuto gruppo contemporaneo, i Mosquitos), che viene pubblicata anche su 45 giri entrando tra i top 20 negli negli USA.

Il richiamo della reunion seduce Davy Jones, ma non Michael Nesmith, al tempo assorbito dagli impegni della Pacific Arts, una compagnia multimediale da lui fondata nel ’74, dedita nel nuovo decennio anche a produzioni di video musicali, raccogliendo grosse LP87soddisfazioni con All Night Long di Lionel Richie e quello di The Way You Make Me Feel per Michael Jackson e nel settore film, con l’action-movie “Repo Man”. I tre vecchi compagni di viaggio, del tutto impermeabili ai cambiamenti musicali dell’ultimo decennio, ma purtroppo non alle plastificate sonorità del tempo, confezionano quindi “Pool It”, disco di pochezza imbarazzante. L’album non riesce neppur lontanamente a confermare i buoni riscontri dei singolo dell’anno precedente e giace invenduto nei negozi di dischi, determinando un nuovo forzato stop. Nel tour promozionale che segue il gruppo è raggiunto sul palco, per qualche data, anche da Michael Nesmith.

Bisognerà attendere però quasi un altro decennio per sentire di nuovo parlare di Monkees. E’ il 1994 quando Peter Tork riemerge dal proprio letargo dando alle stampe il suo primo e pur decoroso LP da solista (“Strange Things Have Happened”), che cerca di riallacciare le fila della vecchia formazione, tra qualche rifacimento del repertorio che fu e la parziale LP96reunion con Dolenz e Nesmith, che fanno capolino nei cori in un brano (la nuova Milkshake). Con il riavvicinamento di Nesmith, da sempre il più titubante dei quattro a rimettere in piedi la band, il più è fatto. Il frutto della ritrovata coesione è “Justus” (1996), che flirta con il passato senza troppi imbarazzi e che risulta tutto sommato ascoltabile. Senza più le pressioni delle case discografiche, gli ormai cinquantenni Monkees sfornano uno dei loro dischi più sinceri, scrivendo, suonando e cantando interamente da soli (e già è una notizia!) i 12 nuovi brani che lo compongono, essenzialmente per il proprio divertimento. La risposta del pubblico non è delle più calorose e dunque, pur senza screzi, i membri del gruppo decidono senza troppo clamore di non dare un seguito all’LP. Negli anni successivi c’è ben poco da segnalare. Davy Jones torna a farsi vivo solo con sporadiche e al solito non indimenticabili uscite, tra monkees2013-16dischi natalizi (“It’s Christmas Time Again”, 1997), nostalgia a buon mercato (“Just Me”, nel 2001, dalla grafica che tristemente richiama quella del vecchio gruppo) e la solita raccolta di standard della canzone d’amore (“She”, del 2009). Le sortite in proprio di Micky Dolenz sono in linea con quelle del suo vecchio sodale. Di lui si ricordano -per usare un eufemismo- un disco di canzoni per bambini (“Micky Dolenz Puts You To Sleep”), uno dedicato a Broadway (“Broadway Micky”) e un altro paio di album in epoche più recenti, ma sempre in tono minore, infarciti di cover (“King For A Day” e “Remember Me”).

Con l’età che avanza e la consapevolezza che solo il ritrovarsi sotto il nome di un tempo può regalare loro gli ultimi scampoli di gloria, le strade degli ex-Monkees tornano a incrociarsi, prendendo come pretesto le cicliche ricorrenze storiche. Nel 2001, per i 35 anni dal debutto, Dolenz, Jones e Tork si riuniscono quindi per un tour all’insegna della nostalgia; poi si replica anche quando quest’ultimo si fa di nuovo da parte, l’anno successivo. Nel 2011 il gioco si ripete, per il quarantacinquennale, con quello che viene LP2016chiamato “Final Tour”. Per Davy Jones, vittima di un improvviso attacco di cuore nel 2012, si tratterà davvero delle uscite finali sotto i riflettori. La defezione del compagno non scoraggia i membri superstiti, che anzi riescono a convincere Michael Nesmith a essere nuovamente a loro fianco per una serie di concerti. La Rhino, che già aveva dato alle stampe i precedenti dischi frutto delle reunion, Pool It e Justus, spinge i Monkees a scrivere nuove canzoni, affiancandogli autori più giovani e a tornare quindi in sala di registrazione. Per i cinquant’anni dalla nascita della band esce così il gradevole “Good Times!” (recensito già da Distorsioni), che sorprendentemente si rivela essere il loro primo disco di materiale inedito a riuscire a scalare le classifiche dai tempi di “The Birds, The Bees & The Monkees”.

      

Antologie, box, live, inediti e rarità

 

LPIneditiLa sequenza consecutiva di singoli di successo dei Monkees inanellata tra il ‘66 e il ’68 è tale per cui le svariate raccolte, uscite nel corso degli anni, sono tutte piuttosto valide. Già nel ’69 la Colgems dà inizio alla lunga serie pubblicando “Golden Hits”, mentre dalle nostre parti, per sfruttare la popolarità televisiva, esce invece “I Monkees In TV”. Queste come molte delle successive antologie, sono ormai fuori catalogo. Tra le più recenti, LIVE67optando per il formato del singolo cd, è ancora possibile imbattersi in “Greatest Hits”. Per un approfondimento più corposo bisogna invece dirigersi verso il box quadruplo con inediti “Music Box” (sempre ad opera della Rhino, del 2001). Se invece siete in cerca di materiale raro, dovete recuperare i tre volumi della serie “Missing Links”, ricchi di versioni alternate e inediti, usciti a cavallo tra gli 80 e i 90 e invero piuttosto introvabili. Il formato del live album non è certo il migliore per apprezzare i Monkees. Al di là delle uscite BOXLIVEgià citate, che documentano le varie reunion, gli anni d’oro sono ben documentati da “Live 1967”. I brani presenti sull’LP sono tutti suonati dai veri Monkees (e francamente i ragazzi suonano in maniera un po’ ‘ruvida’), mentre nelle bonus tracks del cd gli stessi si limitano a cantare, con gli strumenti suonati, dietro le quinte, da musicisti ‘fantasma’ (i Sundowners). Dallo stesso tour provengono le registrazioni dell’anche troppo esaustivo cofanetto quadruplo, “Summer 1967: The Complete U.S. Concert Recordings”, pubblicato a tiratura limitata dalla Rhino Handmade nel 2000. Della stessa BOX2016serie viene pubblicato lo stesso anno pure un triplo box con le sessions di “Headquarters”; uno dei dischi migliori, ma forse bastava una ristampa, magari estesa, su un solo cd. Tutti gli album storici (i primi 9 più un extra con brani tratti dai singoli) sono stati infine riproposti in un box, "Vinyl Complete Albums Box'", sia in cd che in vinile, dalla ‘solita’ Rhino in occasione dell’ultimo Record Store Day e per spianare il terreno alle celebrazioni del cinquantennale.     

   

Filippo Tagliaferri

Video

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