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28 Febbraio 2014 , , , , ,

Lou Reed La magia e la perdita: poesia e nichilismo nell’opera di Lou Reed

1942-2013

lou-reed1                              INTRO

 

A livello simbolico, Lou Reed non è soltanto un artista rock: egli è l’angelo oscuro che trascina i nostri battiti sul lato selvaggio del cuore. Incarnazione del demoniaco istinto dell’arte che si fa mitologia dei reami inferi, scardinamento degli schemi tradizionali in direzione dell’infermità, dei piani obliqui e deviati della sensibilità umana, tirata e distorta da invisibili dita, fino allo sfinimento da asfissia, come una corda di chitarra sanguinante e dolente. Un’arte costretta a distendersi come un ponte di note sull’incolmabile abisso dell’inconscio, arcobaleno devastato fino alle estreme conseguenze, destinato a slogarsi nel concetto di trascendenza della materia, attraverso il viola crepuscolare della carne tormentata e bruciante. Una musica del delirio dei sensi arsi da un sole nero e tuttavia riposante al contempo, per paradosso, nelle gelide stanze obitoriali della mente. In questo senso, in verità, Lou rappresenta immaginificamente, nella sua arcuata e dolorante parabola terrena, il male che si fa entità umanizzata, rappresentazione poetica della sconfitta esistenziale che solo si sublima nel gesto plastico dell’arte. La sua figura, quindi, appartiene e si eleva, in essenza, alla grandezza terribile del tragico.

 

Nascita di un mito: dagli anni della formazione ai Velvet Underground

 

Lou_ReedAccade a molti artisti di avere periodi di grande turbolenza giovanile, in alcuni casi di subire vere e proprie angherie in età adolescenziale. E’ il caso del giovanissimo Lewis Allan Reed, nato a New York il 2 marzo del 1942  e vissuto negli anni d’infanzia e della prima adolescenza a Long Island. Appena quattordicenne, e grazie ai suoi “illuminati” genitori, subisce la violenza di reiterati trattamenti da elettroshock, al fine di tacitare le sue già incipienti inclinazioni omo e bisessuali. Sono violenze che rimangono dentro e che segnano indelebilmente la vita di chi le subisce. Frustrazione, rabbia, senso di colpa, tendenza alla provocazione e all’insulto verso una società volgarmente e tracotantemente perbenista e falsa, voglia inestinguibile di sfida. Tutti temi che ritroviamo, certo filtrati artisticamente, nel Lou Reed adulto. Ecco la grandezza di un artista: riuscire a tramutare il trauma,  il dolore e l’ira in pulsione creativa. Di quegli anni è la sua passione per la chitarra, per certa musica lou-reed-da-giovaneascoltata alla radio, soprattutto di matrice rhythm and blues e free jazz. La sua tecnica chitarristica risente soprattutto di quest’ultimo canone stilistico, in specie dei fraseggi di sax di Ornette Coleman, stile che lo accompagnerà per l’intera sua parabola musicale. Gli anni dell’università, Syracuse University’s College of Arts and Sciences, oltre alla laurea nel 1964, dopo i corsi di giornalismo, regia cinematografica e scrittura creativa, gli recano in dote la conoscenza di una figura di intellettuale di straordinario spessore, che lo influenzerà per tutta la vita: il poeta e scrittore Delmore Schwartz, suo professore in quell’Ateneo, e morto alcolizzato e in totale solitudine, due anni dopo. Schwartz, autore di un notevole libro di racconti e poesie, “Dai Sogni Cominciano Le Responsabilità”, che gli diede una certa notorietà e fu considerato geniale da scrittori quali Saul Bellow, Robert Lowell e John Berryman, e che aveva anche tradotto l’opera poetica di Charles Baudelaire, fu si può dire il mentore del giovane Lou, colui che gli insufflerà quella spiccata passione per la poesia e la letteratura che caratterizzerà sempre la sua produzione musicale. Degli anni del suo trasferimento a New York, è, invece, l’incontro con le realtà musicali avanguardistiche della metà degli anni Sessanta, in particolare con quella del grande La Monte Young, ruotante attorno al progetto Theater Of Eternal Music, ensemble sperimentale nel quale suonava la viola il musicista gallese John Cale, col quale Lou stringe quei legami di amicizia e di collaborazione musicale che, lou andy seppur talora con forti contrasti, avrebbe prodotto talune delle cose migliori dell’intera storia del rock. Alcuni lavori di composizione musicale effettuati da Lou per la piccola etichetta discografica Pickwick, si rivelano da subito interessanti, anche da un punto di vista commerciale, al punto che la casa discografica dota Reed di una band estemporanea, The Primitives, affiancandogli Cale e il batterista Angus MacLise, quest’ultimo sostituito nei Velvet da Maureen Tucker, il primo nucleo di quelli che diverranno, di lì a poco e in seguito al folgorante incontro con lo ‘stregone pallido’ Andy Warhol e alla compagnia di genialoidi mutanti della Factory, i leggendari Velvet Underground. E’ il 1966: occorre ancora qualche mese affinché l’informe crisalide musicale, passata attraverso la fiamma catartica degli Shadows, sviluppi in tutta la sua sinistra, vellutata potenza, le ali di quella prodigiosa farfalla nera del rock che assumerà il nome di Velvet Underground.

 

 Vibrazioni musicali nei Sotterranei di Velluto dell’anima

 

lou red nicoLa scintilla che fa tuttavia divampare l’incendio creativo che sconvolgerà, segnandolo indelebilmente, il destino futuro della musica rock, è l’incontro con Andy Warhol, artista geniale, guru della nascente pop art e ferocissimo fustigatore, attraverso il fuoco annichilente della sua opera, venata di ironia al vetriolo, della società consumistica della quale gli U.S.A sono corifei assoluti. Il punto di contatto Andy e Lou, nella compagnia di artisti dello stregone pallido, la Factory, segna l’attimo della deflagrazione artistica che connoterà irreversibilmente la storia del rock negli anni a venire. Warhol, dopo aver contemplato la band di Lou all’interno del suo spettacolo itinerante Exploding Plastic Inevitable, produce il primo, leggendario album dei Velvet Underground,lou velvet imponendo, però, la presenza nella line-up del gruppo della cantante tedesca Christa Päffgen, in arte Nico, potente e fascinosa sirena dalla voce arcana e dalle notevoli doti compositive. Andy disegna anche la copertina dell’album, la famosa banana, che diverrà uno dei simboli e del gruppo e dell’intero movimento dell’arte contemporanea. A Nico, però, vengono concesse poche chances per mettersi in mostra come compositrice. Il contatto con la personalità debordante di Lou è impari, mal tollerando quest’ultimo che lo si privi della primazia assoluta in ordine a esposizione mediatica e leadership. Nico, quindi, lungi dall’essere coinvolta nella stesura del disco, canta solo tre brani di quest’album che, comunque, trascorre meritatamente dalla storia alla leggenda del rock: Femme Fatale, All Tomorrow’s Parties, I’ll Be Your Mirror. Stupendamente intonati, del resto. Perle assolute dell’Lp, uscito nel 1967 per la Verve Records, sono Sunday Morning,  I’m Waiting For The Man,  la stupenda e inquietante Venus In Furs di masochistica matrice, con la viola di John Cale a tessere trame all’arsenico, il basso di Sterling Morrison a pulsare ossessivamente nel vuoto della desolazione umana, la batteria di Maureen Tucker a dirupare negli abissi della melodia malata, la chitarra di Lou, punteggiata dalla caratteristica voce in flusso narrativo, a staffilare la sensibilità dell’ascoltatore, lou velvet 2infiammandola di piaghe purulente; e poi, la cavalcata ferale di Run Run Run, la nuda allucinazione sonica di Heroin, la classica traccia con tanto di cori in sottofondo di There She Goes Again; la lisergica ouverture di Black Angel’s Death Song, dove a torreggiare sinistramente è la viola elettrica di John Cale, e la devastante ed ebbra di atmosfere dissonanti European Son, scritta da Lou per rendere omaggio al suo maestro e ispiratore letterario, Delmore Schwartz, chiudono un disco celebrato giustamente come uno dei più importanti e influenti dell’intera storia della musica contemporanea.

 

Nelle prime settimane del 1968, sempre per la Verve, vede la luce il secondo album dei Velvet, “White Light/White Heat", privo dell’apporto di Nico, congedata da Lou perché ‘rea’ di lesa maestà…in quanto attirante troppe attenzioni su di sé da parte dei media e della critica musicale, rapite dal talento e dalla personalità carismatica della valchiria tedesca a discapito del leader. Frizioni sorgono anche tra Lou e Andy Warhol, e tuttavia il disco è strepitoso, in ordine a classe compositiva e devastante impatto contenutistico e stilistico. White Light/White Heat  è un classico di gran pregio, con un insolito Lou al piano, di cui una splendida cover verrà tratta dal Duca Bianco, David Bowie, mentre d’allucinante impianto paranoico è certamente The Gift, racconto in musica di taglio orrorifico con protagonista Waldo, il quale, innamorato di una ragazza, prova a farle uno scherzo,lou velvet white light impacchettandosi e facendosi spedire per posta all’indirizzo della stessa, che, non trovando di meglio che un paio di robuste e affilatissime forbici per scartare il “dono”, finisce con l’ucciderlo involontariamente…Una metafora di mera e fredda allucinazione sul destino dei rapporti sentimentali. Dopo la splendida e inquietante Lady Godiva’s Operation e la pluricoverizzata  Here She Comes Now, altro pezzo, a suggellare l’album, che passerà alla storia è la delirante passeggiata nell’incubo della contemporaneità, martoriata e dolente, di Sister Ray, diciassette minuti e mezzo di mero smarrimento nel vasto nulla della composizione in stile ‘free’, a tal punto che da più autorevoli parti fu acutamente definita come una sorta di corrispettivo rock delle improvvisazioni free jazz di un Ornette Coleman. Recentemente, per celebrare il quarantacinquesimo anniversario di questo disco seminale, è uscita l’edizione Deluxe, in Cd ed Lp, in due versioni: nella versione Superdeluxe sono compresi in tre cd il disco in versione mono, il disco in versione stereo, e il “Live At The Gymnasium” di New York del 30 aprile del 1967; ad accompagnare i cd, un libro di cinquantasei pagine con foto e testi dei brani; nella versione Deluxe sono inclusi due cd o due lp con l’edizione lussuosa dell’album e il live sopracitato, corredati di un booklet di VUventi pagine. Il tutto con alcuni brani inediti e con varie alternative tracks. In questo torno di tempo, Lou continua a fare il vuoto attorno a sé. La sua personalità scontrosa e irrequieta, tendente alla paranoia solipsistica, lo porta allo scontro anche con John Cale, il quale è allontanato dal gruppo alla vigilia del terzo album dei Velvet Underground, che reca il titolo omonimo. Il disco vede la luce nel 1969 per i tipi della Mgm Records, con l’apporto notevole del polistrumentista americano Doug Yule, dapprima al basso e alla voce, in luogo di Cale.

 

Il disco segna l’inizio del declino della stella dei Velvet, benché contenente taluni brani di squisita fattura, come l’iniziale Candy Says, scritta da Lou per Candy Darling, un transessuale facente parte del giro di Andy Warhol, e nella quale la voce mellifluamente intonata di Yule è affiancata dalla chitarra languidamente modulata di Reed.Altre tracce di sommo rilievo del disco sono certamente la classica What Goes On, tra le più coverizzate in assoluto del prezioso repertorio del gruppo; la malaticcia Some Kinda Love, in cui la voce straziata di Lou s’innesta come un tralcio morente sul giro blues, declinante in crepuscolo sonico, della chitarra; la suadente Pale Blue Eyes, pregna di languore sentimentale e melodie delicate, dedicata a Shelly Albin, una delle prime ‘fiamme’ di Lou; la temibile e febbrile The Murder Mistery, dall’indubbio impianto psichedelico. La conclusiva Afterhours, dall’impatto folk, costituisce il canto del cigno di un disco non certo imprescindibile nella gloriosa discografia dei Velvet. Il 1970 è l’anno nel quale la tendenzalou loaded paranoide di Lou assume contorni devastanti, per sé e per la band. Esce per la Atlantic/Cotillion quello che è il quarto, ma anche ultimo, album dei Velvet Underground, “Loaded”.  In esso, tuttavia, nonostante nell’insieme alquanto insufficiente a livello compositivo si intravedano i simboli della fine sopravveniente, si possono riscontrare alcuni brani che rimarranno nella memoria collettiva di tutti gli aficionados del rock. Due su tutti: il prodigioso ritmo ossessivo di Sweet Jane; l’incalzante periodare chitarristico-vocale di Rock & Roll. Senza dimenticare la bella trama folk-blues di Oh! Sweet Nuthin’. I primi due dischi, però, distano una miriade d’anni luce, la potenza di quei solchi, generatrice di sulfuree esalazioni avernali, di letterari incubi metropolitani, di frustate di sana adrenalina nel cremisi del sangue, è del tutto declinata. Dopo “Loaded”, Lou scioglie la band e si avvia verso una tormentata ma leggendaria carriera solistica.

 

Cronistoria di un cammino solitario sul lato selvaggio della strada: anni ’70

 

Inizia dalle sacre ceneri dei Velvet il cammino solitario di Lou sul lato selvaggio della strada del rock, costellato di luci e ombre. Il talento spesso non è sufficiente da solo per confezionare grandi dischi, occorre quello che Federico Garcia Lorca chiamava il duende, ovvero l’istinto folgorante, lo scatto del sangue, stregonesco e sfuggente, bruciante e lou reed primo albumrapinoso, e a volte pietrificante come lo sguardo d’una capricciosa Medusa. Ed esso manca nel primo disco da solista,“Lou Reed”, senza alcun dubbio. Uscito nel maggio del 1972 per la RCA Records, esso si rivela un clamoroso fiasco, sia a livello di qualità creativa che di vendite commerciali. Nonostante una line-up di assoluto prestigio che prevede tra gli altri due grandi musicisti del calibro di Rick Wakeman e Steve Howe, l’album suona fiacco e straccamente monotono, la voce di Lou svuotata della potenza espressiva che l’aveva caratterizzata nel periodo velvettiano, l’impianto dei brani dal vieto tono mellifluo, ai limiti della banalità. Un infortunio artistico, certamente amplificato dall’enorme attesa creatasi presso pubblico e critica attorno all’alfiere principale dei Velvet Underground. Tuttavia, brani come Berlin e Wild Child, ripresi efficacemente più tardi, soprattutto dal vivo, mitigano il rovinoso insuccesso dell’album. Tra l’altro, per Lou è un periodo di forte depressione quasi al limite dell’esaurimento, causato dalla fine dell’esperienza dei Velvet che molto l’aveva segnato psicologicamente. Giusto il tempo di un bel  concerto  nel 1972 al Bataclan di Parigi che vedrà la luce, in un grande disco live, "Le Bataclan '72", ufficialmente’ soltanto nel 2004,  insieme a Nico e John Cale, dove vengono eseguiti anche  brani del repertorio dei Velvet Underground, oltreché dei singoli musicisti presenti sul palco, ed ecco che a trarre nuovamente a vivida fiamma creativa il genio di Lou ci pensa il Duca Bianco, Bowie. Uno dei dischi più esaltanti della storia del rock è allora servito. La produzione di David Bowie, coadiuvato dal fido Mick Ronson (che figura anche in qualità di chitarrista), per la RCA, è perfetta, Lou tornato in grande spolvero sfodera una sequela di brani da leggenda.

 

Transformer” è uno dei sommi capolavori del geniale Reed. Accanto a un paio di brani concepiti già ai tempi dei Velvet (Andy’s Chest, scritta per raccontare in musica il tentato omicidio ai danni di Andy Warhol nel 1968; Satellite Of Love), una sfilza di perle sonore lou reed TRANSFORMERbrilla nel tessuto complessivo dell’album. Brani destinati poi a divenire classici immortali: Vicious, sempre ispirata a Warhol; lo stupendo periodare armonico di Perfect Day; l’ustionante affresco dei tempi deviati della Factory effigiato in Walk On The Wild Side; la corrosiva ironia di Goodnight Ladies introdotta da un tappeto di fiati su una base dixieland. Un album grandioso, in definitiva, che rilancia provvidenzialmente la figura di un artista dalle straordinarie doti creative. Con la produzione di Bob Ezrin (meglio noto per aver poi prodotto “The Wall”  dei Pink Floyd), sempre per la RCA, esce nel 1973 “Berlin”. Uno tra i dischi più lirici e dolorosi della storia del rock. Un concept-album di rara poesia, venata di un’irredimibile linea di decadenza, spettrografia in musica di stati depressivi ai limiti dell’incolmabile. Il disco adombra in musica con toni di doloroso lirismo la fine del matrimonio di Lou con la prima, amatissima moglie, Betty Reeds. Crepuscoli striati di bave sanguinose, cieli di uno sfatto violaceo che cadono a pezzi nei templi distrutti del cuore umano. Un poema del dramma della fine inevitabile dei sentimenti, sullo sfondo della Berlino degli anni Settanta, con risvolti e conseguenze di pulsante tragedia esistenziale. Inizialmente concepito come doppio album, la RCA imponeLou Reed - Berlin - Front la forma dell’Lp singolo, ritenendolo morbosamente disperato e difficilmente commerciabile. Più d’un membro dell’entourage che collabora alla fattura del disco, si racconta, pare sia poi finito in analisi, in preda a forti stati depressivi! Musicisti di grande livello affiancano Lou nel doloroso cimento: Michael e Randy Brecker, Jack Bruce, Steve Hunter, Tony Levin, Steve Winwood. Il disco è un fallimento sul piano commerciale negli Stati Uniti, pur rappresentando una delle vette assolute della creatività deviata di Lou.

 

Verrà adeguatamente rivalutato anni dopo, e nell’occasione del trentatreesimo anniversario dalla sua uscita, nel 2006, Lou porterà in giro per il mondo uno spettacolo ispirato all’album, con l’aggiunta di cori e filmati ad hoc. Brani come Lady Day, Men Of Good Fortune, Caroline Says II, Sad Song, entreranno di diritto nel Parnaso del grande rock, per la loro carica di lirismo, poesia infera, infermità febbricosa dei versi e delle melodie, tendenza alla distorsione irrimediabile di ogni rapporto umano proclive alla disperazione e al fittissimo oblio. Nel 1974, RCA, vede la luce il primo live di Lou, “Rock N lou animalRoll Animal”, nel quale figurano classici brani del suo repertorio (Sweet Jane, Lady Day) accanto a tracce del periodo Velvet (White Light/White Heat, Heroin). E’ un disco dall’impatto energetico selvaggio, favorito in ciò dalle chitarre poderose di Steve Hunter e Dick Wagner e dalla voglia di Lou di evadere dal plumbeo carcere interiore nel quale la depressione e l’uso torrenziale di droghe l’avevano recluso. Quasi per compensare l’insuccesso commerciale di “Berlin” la RCA pretende da Lou la pubblicazione di dischi che vendano notevolmente. Ed ecco nel 1974 ”Sally Can’t Dance”, album che ottiene un grande successo di vendite ma certo non è tra le prove migliori, a livello qualitativo, di Reed. Ove si faccia eccezione per la splendida Billy, in cui lou-reed-sally-can-dancesuona il basso il suo vecchio compagno d’armi nei Velvet, Doug Yule, per la sognante e sinuosa Ennui, per la sinistramente rievocativa (una memoria in musica, drammatica anzichenò, degli elettroshocks subiti da ragazzo da Lou) Kill Your Sons, le restanti tracce sono alquanto deboli, troppo scoperta l’intenzione di carpire il facile consenso dei pubblico. Un disco mediocre, infine, seppur di grande impatto commerciale.  Insofferente vieppiù dinanzi alle reiterate pretese della RCA, affinché continui sulla scorta di dischi commerciali come “Sally Can’t Dance”, Lou spiazza tutti, pubblico e critica, realizzando nel 1975 un disco di mero rumorismo chitarristico: “Metal Machine Music”. Uscito per l’esterrefatta etichetta discografica, l’album è un continuum di feedback chitarristici lancinanti e urticanti. Una delle più spaventose provocazioni sonore della storia del rock, certo filiazione dellaMetal_machine_music frequentazione giovanile di Lou della creatura del grande La Monte Young, Theather Of Eternal Music, compagine nella quale suonava l’amico-nemico John Cale. Il disco costituisce una delle più discusse ma affascinanti prove di sperimentalismo estremo nell’ambito della musica rock , con quelle chitarre in eterna distorsione adagiate e come agonizzanti sugli amplificatori, a dissanguarsi in un caos di note di assoluto delirio.

 

Seguono un paio di dischi non certamente esaltanti, sempre per la RCA: “Coney Island Baby” nel dicembre del 1975 e “Rock’n’Roll Heart” nel 1976 (a far da corredo ai dischi da studio, esce anche un live sulla scia del successo ottenuto da “Rock N Roll Animal”, Lou Reed Live”, che tuttavia non consegue alcun successo di vendite). In “Coney Island lou babyBaby”appare tra le linee intertestuali con un qual certo rilievo la figura di Rachel, un trans col quale Lou ha una tempestosa relazione in quel frangente, mentre dal punto di vista eminentemente musicale è un album di indubbia modestia. “Rock’n’Roll Heart”,  che sancisce la fine temporanea della collaborazione tra Lou e la RCA, ed esce per la Arista Records, alla cui corte lavora in veste di produttore il suo ottimo manager Steve Katz, è probabilmente il peggior disco della carriera di Reed. Una sfilza di canzonette illanguidite e insulse che più tardi anche l’autore avrà a ripudiare con una certa veemenza. Splendido è invece il ritorno di Lou ad atmosfere per nulla concilianti e compromissorie verso il music-biz, nel 1977. E’ la volta di un grande album, Street Hassle”, nel quale il suono si falou-reed scarnificato e dolente, la voce scava abissi nella carne stessa della melodia, le storie che vi si narrano hanno i colori grevi dell’emarginazione e della rabbia metropolitana. Brani come Dirt, o la splendida, lunga traccia malata della title-track, con l’inusitata ouverture trapunta di archi dispiegati nell’infinito, la voce dolente e alla perenne ricerca di impossibili catarsi di Lou; o l’incalzante e provocatoria I Wanna Be Black; e ancora, la sontuosa e distorta traccia sonica di Shooting Star, salutano il grande ritorno di Lou Reed alla fertile vena compositiva, ma soprattutto alla riappropriazione del suo grandioso talento, nella sua veste meno incline al facile compromesso commerciale, e sfolgorante dei sinistri arcobaleni della geniale e poetica provocazione.

 

Sul doppio live uscito nel 1978, "Take no prisoners", frutto dei concerti tenuti da Lou al Bottom Line di New York, v’è poco da dire. Un continuo e ininterrotto flusso di parole in libertà, sprezzanti talora verso il pubblico, la società dell’epoca, invettive al vetriolo contro il mondo dei critici musicali, della politica, talora anche di alcuni artisti di gran valore come Patti Smith. E poi, brani interrotti nel bel mezzo d’un ”a solo”. La cosa più interessante, Lou-Reed-Live-Take-No-Prisonersoltre alla verve all’arsenico di Lou, di questo disco è senz’altro la copertina: un personaggio vestito alla maniera punk, con giubbotto di pelle ma con calze a rete e reggicalze. Un disegno rubato a un artista spagnolo, Nazario, dal quale Brent Bailer disegnatore di covers, copiò di sana pianta l’immagine senza richiederne il permesso all’autore, e beccandosi in tal modo una citazione per plagio. Ragion per cui, in Spagna, il disco dovette uscire con un’altra copertina. A ripristinare il canone della grandezza di Lou basta l’uscita nel 1979 dell’ennesimo album da studio per la Arista,The Bells”. E’ un album dal notevole impatto sperimentale, con venature piuttosto spiccate di free jazz. A testimonianza di ciò, la preziosa collaborazione del leggendario trombettista Don Cherry. Lou viene qui altresì coadiuvato nella stesura deiLou_Reed-The_Bells-Front brani dall’ottimo Nils Lofgren. Sono presenti, in egual misura, istanze di pretta matrice sperimentale, come la sontuosa e inquietante title-track, ispirata a un racconto del mitico E.A.Poe, scrittore amatissimo da Lou, nella quale la tromba di Don Cherry disegna architetture sonore inquietanti e spettrali, cui fa da pendant la voce catacombale di Reed; critiche feroci alle mode musicali imperanti in quel periodo, in Disco Mystic; analisi socio-antropologiche virate al nero, come ad esempio in Families. Un lavoro di estrema complessità e variegata sostanza musicale, un frammischiarsi di stili in apparenza inconciliabili e ora fusi qui grazie alla maestria e al talento sincretistico di Lou, quasi a preziosa epitome di un decennio, interpretato e sviscerato, sin nei più intimi e oscuri meandri, con la grazia dolorosa di uno straziato cantore orfico.

 

I problematici anni ’80: tra maschere tristi e cuori leggendari

 

Lou 80Si può dire che dopo esser passato tra distese sconfinate di sostanze psicotrope fin oltre i limiti della caduta nel baratro irreversibile della tossicodipendenza, Lou, agli inizi degli anni Ottanta, grazie anche al matrimonio con Sylvia Morales, prova a riconquistare un minimo di tranquillità interiore. La nuova veste di Reed è ravvisabile di certo nel disco che inaugura il decennio, “Growing Up In Public”. Un album non trascendentale in ordine alla qualità complessiva, ma con alcuni brani degni di nota e un’unità compositiva alquanto spiccata. How Do You Speak To An Angel?”, ad aprire il disco, è un bell’incrocio di stilemi musicali, con un Lou molto ispirato alla voce e con il fido Michael Fanfara a lussureggiare ai sintetizzatori. Altro brano eccellente è My Old Man, dove il Nostro si avventa con grande lena vocale sul tappeto tastieristico e screzia l’insieme con puntate chitarristiche notevoli. Da rimarcare anche Standing On Ceremony, per un album che se complessivamente non assurgerà alla qualifica di memorabile, consegna un Lou Reed in lou-reed-growing-up-in-publiccerca di quiete, esistenziale ed espressiva, smessi i panni dell’artista maledetto, almeno provvisoriamente, in ragione di uno stile più riflessivo e intimistico. Il ritorno al grande rock avviene, tuttavia, con “The Blue Mask”, nel 1982, allorché entra nella vita artistica di Lou il valoroso chitarrista Robert Quine. Robert, purtroppo venuto a mancare nel 2004 a causa di un’overdose, si suppone assunta a fini suicidi, aveva suonato con Richard Hell nei Voivods, e più tardi avrebbe collaborato con artisti del calibro di Tom Waits e John Zorn. Virtuoso assoluto dello strumento, lega immediatamente con Lou, col quale realizza questo splendido album che segna altresì il ritorno alla RCA. Fernando Saunders al basso e il session man Doane Perry alla batteria completano il set. Sin dall’incipit, My House, le atmosfere sembrano tornate quelle essenziali e incisive dei tempi velvettiani, con Lou che gigioneggia alla voce come nei momenti migliori e Quine che maramaldeggia alla sei corde con grande maestria. Il sound pare essersi ulteriormente affinato, filtrato dall’estrema sapienza compositiva di un Lou nettamente più maturo e convinto di risalire dall’abisso depressivo degli ultimi anni, e in questo senso un brano come Gun, è sommamente esplicativo.

 

Lou-Reed-The-Blue-MaskLa cavalcata elettrica di The Blue Mask, ebbra di suoni corrosivi e come bagnati nell’acido fenico del grande rock, costituisce la grandiosa vetta di un album strepitoso. La cascata di note metallicamente modulate in mera devastazione sonica di Waves Of Fear, la classica e dolente armatura melodica di Day John Kennedy Died, contrassegnano in austera grandezza un album che è senz’altro annoverabile tra i migliori in assoluto della preziosa discografia del Nostro. L’anno dopo, nel 1983, sempre per la RCA, esce “Legendary Hearts”, con la sola novità nella line-up di Fred Maher alla batteria. Benché il disco non sia da giudicare troppo severamente, è certamente inferiore al precedente. Il suono è meno potente e profondo, le tematiche affrontate in esso più leggere, come eccessivamente easy suonano certe tracce. Brani come Don’t Talk Me About Work, Martial Law, Bottoming Out, Home Of The Brave, assurgono a livelli certamente dignitosi. Il disco, si può dire, paga paradossalmente il fatto d’essere uscito subito dopo un capolavoro come “The Blue Mask”. Lou Reed non può smentire tuttavia la sua natura egolatrica di solitario licantropo, di spietato e solipsistico sado-masochista e tronca di netto il sodalizio artistico con Robert Quine, reo, come altri grandi musicisti che avevano costellato la carriera di Lou, di rubare la scena al leader, in ragione di un talento e di una personalità troppo spiccati. Il risultato è il modestissimo album susseguente, “New Sensations”, del 1984, fiacca e deludente saga di canzoni scipite e insignificanti. Pochissimi brani sopravvivono all’apocalisse creativa dell’aedolou reed italy newyorkese: My Red Joystick, Turn To Me, Down At The Arcade. Un disastro. Fortuna che, a mitigare la caduta creativa di “New Sensations”, poco dopo esca un doppio album live registrato l’anno precedente durante il tour in Italia, a Verona e Roma, “Live In Italy”, nel quale si nota la forma strepitosa della band che accompagna Lou, ovvero Quine, Maher e il fido Saunders, e una strepitosa versione di Heroin con un Quine stratosferico. Il fondo di mediocrità di questo periodo artistico di Lou Reed, dev’essere ancora toccato. Avviene con lo sconcertante “Mistrial”, del 1986. Ogni cosa suona fuori sincrono in quello che è unanimemente considerato, e meritatamente, il peggior lavoro del grande artista americano. Dalla batteria campionata voluta come tributo alla tipologia dei suoni contemporanei imperanti, alla commistione di stilemi tra essi difficilmente conciliabili, come il rap sovrapposto al classico impianto rock, e non attecchiti nel tessuto connettivo dell’insieme armonico. Ove si faccia eccezione per brani come la title-track Mistrial, Outside, la sinuosa melodia di Tell It To Your Heart, il disco s’inabissa tra i flutti dell’insignificanza assoluta. Il 22 febbraio del 1987, a New York, in seguito a un intervento chirurgico, viene a mancare Andy Warhol. La perdita per il mondo dell’arte e per l’universo affettivo di chi lo amava è immensa. Lou è distrutto. Cade in uno stato catatonico dal quale riemerge con l’unico rimedio che conosce: la musica. 

 

Lou-Reed-new-yorkIl secondo capitolo di quella che verrà definita dalla critica “la trilogia del dolore”, inaugurata con “Berlin” nel 1973, vede così la luce, per la Sire Records nel 1989, uno dei dischi più intensi e commoventi dell’intera discografia di Lou: “New York”. Un disco epocale che vuole essere contestualmente un omaggio alla sua città, crocevia di razze e di culture, nido di poesia massimale e somme contraddizioni, nella quale convivono inestricabilmente avviluppate bellezza e dolore, follia e ragione, pietà e ferocia, e una commossa rievocazione di tutte le fasi della vita di Lou, delle speranze e dei sogni spezzati dell’infanzia, dell’efferatezza della società consumistica e dell’irriducibile volontà di emanciparsi dalle miserie del quotidiano, nell’ottica di un perfezionamento spirituale mediante il quale attingere la quiete e la pacificazione interiori. Musicalmente e contenutisticamente è uno dei suoi massimi capolavori. Anche i musicisti che lo coadiuvano sono straordinari: Michael Rathke alla chitarra, Rob Wasserman al basso e contrabbasso, il prode Fred Maher alla batteria. Il disco decolla come una nave spaziale in orbite da sogno, già con il classico Romeo Had Juliette, con il graffio felino della chitarra a far da ouverture e la voce malata e febbrile di Lou a bruciare petali d’armonia obliqua. Halloween Parade (Aids) tocca il tema drammatico e scabroso dell’Aids. Sempre in ordine ai temi sociali, fortemente e drammaticamente presenti nell’album, la triste sorte dei senzatetto è descritta con toccanti accenti lirici in Endless Cycle; così come la piaga del razzismo è sottolineataLou-Reed fortemente in Good Evening Mr. Waldheim, Segretario Generale dell’O.N.U dal 1972 al 1981, con funesti trascorsi nelle milizie naziste. Toccante la dedica del brano più melodico e suadente del disco all’amico di sempre Andy Warhol, in  Dime Store Mistery (To Andy-Honey). La delirante camminata su uno stretto ponte steso sull’abisso del suono rappresentata da Strawman  è sommamente esplicativa dell’estremo valore dell’album. Consustanzialmente ai temi trattati, la musica è potente, urticante, ustoria, acida, mai compromissoria. Tutti gli strumenti si muovono come sul filo d’un rasoio, tra la poesia e lo schianto luciferino. La rappresentazione della società americana ha i colori di un crepuscolo irrancidito, i personaggi evocati, pur se tratti dai fondali miasmatici delle strade verminose, hanno una grandezza mitologica da tragedia greca. Un grandioso affresco di decadenza e ansia di redenzione, di infernali cadute e miracolose rinascite: New York.

 

Di magie e stregoni:  le luci sommesse del crepuscolo. Gli anni ’90

 

lou drellaNella mente di Lou prende rilievo un’idea geniale, per commemorare l’amico di una vita Andy Warhol, visto che i tributi alla sua memoria a detta del Nostro erano sin lì stati troppo scarni o fuorvianti. Contattato John Cale, con il quale si erano rimarginati i rapporti in occasione delle esequie di Andy, in un paio di settimane viene allestito un concept-album che ripercorre con toni commossi, nei suoi quattordici episodi, la vita di Warhol. Esce così, nel 1990, per la Sire Records, “Songs For Drella”. I brani sono quasi tutti composti da Lou, ma nel suo giusto anelito a omaggiare la memoria di Drella (da Cinderella, uno dei nomignoli dati ad Andy) permette che il gallese figuri come co-autore. Il connubio artistico è strepitoso, due geni della musica contemporanea per un album splendido e toccante. Ove si faccia eccezione per Style It Takes e A Dream, tutti i brani sono di Lou Reed. Una lunga escursione in quella che è stata la vita del geniale andyWarhol, con Lou e John che si alternano al canto su un tappeto volante di chitarra e tastiere, a partire da Small Town, passando per la lirica rievocazione sonora di Open House. La voce di Reed è toccata dalla grazia, la chitarra ora fluida ora straziata, il ricamo tastieristico di Cale, impreziosisce il tutto. Ed ecco scorrere come sul nastro dorato della memoria, episodi della vita quotidiana o artistica di Andy. La magnifica Style It Takes supportata dalla voce profonda di Cale e dalla chitarra appena accennata di Lou; la sostenutissima ritmica di Work; la poetica traccia di Faces And Names; la sofferta e crepuscolare Slip Away (A Warning), con la voce di Reed che pare sorgere dagli abissi stessi del cuore; la chitarra che accenna un riff contorto e melanconico, prima di cedere alla voce al curaro di Lou e alle note argentine del piano di Cale, in He Wasn’t Me. La splendida atmosfera ebbra di brume sensoriali, dal ritmo cardiaco sincopato, onirico e solenne, di A Dream, dove la voce narrante di Cale si spalma come una gradazione purpurea sul suono della chitarra persa in lontananze d’esilio; la classica andatura rock di Forever Changed, con graffi acidi di chitarra a duettare con l’ossessivo pulsare del piano, conducono al saluto finale a Andy Warhol con la commovente Hello It’s Me, con la quale, la voce di Lou, adagiata come nell’evocazione di un sonno eterno sul suono dolce e straziato della viola di John Cale, dà l’estremo addio al compagno d’arte di una vita, con quell’ultimo“Goodbye, Andy” che regala brividi di vellutolou-reed-magic-loss nero e tocca le corde liriche dell’anima. E’ una fase della vita di Lou nella quale tratto dominante è la sofferenza. Una sofferenza che si tramuta in fuoco creativo, assurge al gesto plastico dell’arte, si stempera nello straziante lirismo della musica. Terzo capitolo, allora, della cosiddetta “trilogia del dolore”, ecco che giunge per la Sire Records “Magic And Loss”. E’ il 1992, e nell’esistenza di Reed si registrano perdite umane gravissime. Scompaiono, falciati via dal cancro  in quel torno di tempo, due amici carissimi di Lou, Doc Pomus, un cantautore, e Rita, un transessuale meglio noto come Rotten Rita, al secolo Kenneth Rapp, conosciuta ai tempi della Factory warholiana.

 

Magic And Loss” è ancora una volta un concept-album, i cui temi dominanti sono la malattia e la morte, la sofferenza acutissima e la voglia di redenzione attraverso la musica. Brani come Power And Glory, Magician, Sword Of Damocles, l’incedere lento e ineludibile di un appressamento alla morte. Il tono della voce è funereo, i tocchi della chitarra paiono altrettanti richiami sorgenti dal regno delle ombre. Tuttavia, la poesia che ne promana è simbolica della sublimazione del dolore nella sfera creativa dell’arte che non si arrende all’ineluttabile. Tra le innumerevoli tracce pregnanti del disco, ancora: Dreaming, che pare voler avvolgere in un manto onirico di quiete tutto il dolore umano; la The Velvet Underground - Live MCMXCIII - Frontsuperba Harry’s Circumcision, con la voce di Lou, punteggiata dalla chitarra ebbra di un respiro deliquescente; la maestosa, profonda armonia di Magic And Loss, la title-track, a chiudere un album circonfuso del dolore della perdita, ma anche della magia e della bellezza che da esso affiorano come fiumi carsici provenienti dal battito abissale, poetico e segreto del cuore  umano. La riconciliazione con l’antico compagno d’armi John Cale, spinge Lou, che nel frattempo si separa dalla sua seconda moglie, Sylvia Morales, a ricostituire dopo ben ventitré anni i gloriosi Velvet Underground, con tutti i membri della line-up originale, tranne la stupenda Nico, purtroppo venuta a mancare nel 1988. La band si esibisce in tour in mezzo mondo, affiancando come gruppo-spalla gli U2 nel loro Zooropa tour, nel 1993. Ora, e sia detto per inciso, con tutta la simpatia per il gruppo capitanato da Bono Vox, pensare ai Velvet come loro gruppo-spalla non è meno che una bestemmia dal punto di vista della leggenda della musica rock…Comunque, a seguito di questo ampio tour, dopo il quale i Velvet tornano nel limbo dorato dell’inesistere, esce un doppio album live (anche su DVD), "MCMXCIII", che, ove si eccettui l’indubbio valore documentario e di curiosità musicale e intellettuale di riscoperta della band storica, nulla aggiunge al loro prodigioso repertorio. Occorre attendere altri tre anni per il nuovo album da studio di Lou Reed.

 

Set+The+Twilight+Reeling+Lou+Reed+E’ un Lou Reed che dopo aver superato la temibile tempesta interiore e dopo aver regolato i conti con i propri fantasmi, instaurata una nuova relazione sentimentale con la brava musicista e compositrice d’avanguardia Laurie Anderson, dà alle stampe per la Sire Records un nuovo album, Set The Twilight Reeling. Un disco di buon livello che, tuttavia, non brilla eccessivamente per qualità compositiva. Un Lou che si diverte qui a vestire i panni dell’ex maudit, ora cantore sarcastico di situazioni tratte dall’ordinario fondale del quotidiano (come in Egg’s Cream, NYC Man, HookyWooky, The Proposition, Riptide), con la chitarra solista curata da lui personalmente, un piglio tra l’ironico e l’aggressivo, una base rock obliquamente modulata, testi lievi o vertenti sull’eterno tema dei sentimenti umani, difficilmente inquadrabili e sfuggenti. Un album, comunque, di buon livello, che permette a Lou di riconciliarsi con se stesso, di riunire in una sorta di quiete ritrovata i disperati frammenti esiliati del suo ioLou-reed-perfect-night-live-in-london devastato, di puntellare eliotianamente con robuste e affidabili note di rock’n’roll le rovine di un decennio vissuto a livelli d’insostenibile tensione emotiva. L’occasione di registrare un bel disco live in chiave eminentemente acustica viene offerta a Lou, su invito della compagna Laurie Anderson, in seguito a un concerto tenuto nel 1997 alla Royal Albert Hall di Londra. Il disco esce nel 1998 con il titolo “Perfect Night: Live  In London”.  Brani del suo prezioso repertorio rivisitati in veste unplugged, come Perfect Day, Coney Island Baby, Dirty Blvd, assumono colori morbidamente crepuscolari e restituiscono un Lou in grande spolvero sia sul piano umano che artistico.

 

Il tormento e l’estasi ovvero del crepuscolo degli idoli: il terzo millennio

 

LOU ECSTASYA inaugurare il nuovo millennio, vede la luce nel 2000, “Ecstasy”.  E’ un disco dalla marcata e feroce impronta rock, uno tra i più sanguigni dell’ultimo ventennio. Brani ispirati e atmosfere cariche di positive vibrazioni rock’n’roll. I temi, more solito, spaziano dall’imminente dirupamento della personalità negli abissi della nevrosi (Paranoia Key Of E, Mad, o l’ossessiva e delirante distorsione sonica, ben diciotto minuti, di Like A Possum ); tensioni d’impossibile ma agognata redenzione (Misty Child, Ecstasy, Big Sky); palpitanti questioni socio-antropologiche (Modern Dance, Future Farmers Of America); febbrili pulsioni di devianze sessuali (Tatters, Rock Minuet, Rouge). I musicisti della band reggono la sfida a grandi livelli: il fido Fernando Saunders, il grande Mike Rathke, la splendida violoncellista Jane Scarpantoni. Un album di squisita fattura che apre al meglio l’ultimo quarto di luna di Lou Reed, arcangelo oscuro e maledetto del rock. Dopo aver volato attorno a uno dei suoi miti letterari, Edgar Allan Poe, averne rasentato con ali fiammeggianti e predisposte allo schianto le tematiche, il bordo profondo del Maelstrom, Lou decide di regolare i conti col genio di Boston. In particolare, lo spunto di sviscerare da ogni possibile angolazione una celebre poesia di Poe, The Raven,the raven si concretizza in un virtuoso tentativo di rivisitazione musical-letteraria dell’intera opera dello scrittore. Esce, dunque, per la RCA, sia in edizione doppia (in limited edition), che singola, nel 2003, l’ultimo album da studio firmato Lou Reed: “The Raven”. Troppo lunga la lista degli ospiti eccellenti per darne completo resoconto. Ci si limiterà a far menzione dei più noti, e non solo provenienti dall’ambiente prettamente musicale. Oltre alla consueta griglia di artisti della valorosa band, figurano nell’album come guest stars: Antony Hegarty, seconda voce in Perfect Day; la compagna Laurie Anderson, seconda voce in Call In Me; David Bowie, voce in Hop Frog; Ornette Coleman, al sax in Guilty; Elizabeth Ashley, voce in The Valley Of The Unrest; e gli attori, Steve Buscemi, voce in Broadway Song, e Willem Dafoe, voce narrante in The Raven e The Cask. Una scommessa affascinante e complessa, certamente vinta dal fuoriclasse newyorkese, sempre sospeso, nella sua dolorosa ma folgorante carriera, tra musica e letteratura, a confermare un talento visionario con pochi precedenti nella sconfinata vastità della storia del rock.

 

lou reed Hudson_River_Wind_MeditationsIl tempo di un altro magnifico e intenso live album, nel 2004, in chiave squisitamente minimalistica, “Animal Serenade”, con delle struggenti versioni di brani tratti dal suo repertorio vecchio e nuovo, tra cui anche una strepitosa e commovente Venus In Furs, risalente ai tempi aurei dei Velvet Underground, con un finale da brividi circonfuso del suono poetico e invasato del violoncello di Jane Scarpantoni e di una riedizione in chiave live di “Berlin”, uscita nel 2008, in seguito a un concerto tenuto al St. Ann’s Warehouse di Brooklyn nel 2006, e la parabola artistica diLou_Reed_Creation_of_The_Universe Lou Reed s’approssima al suo adamantino epicedio. Dopo alcuni frammenti discografici di puro taglio sperimentale ed elettronico, “Hudson River Wind Meditation”, “Metal Machine Music Live”, “The Creation Of The Universe” con un combo sperimentale da lui creato il Metal Machine Trio, comprendente anche Ulrick Krieger, sassofonista sperimentale già facente parte degli Zeitkratzer Ensemble, e Sarth Calhoun al live processing, dal taglio spiazzante, volutamente e apertamente provocatorio e dissacrante, l’ultima prova da studio di Lou in comproprietà con il gruppo heavy metal dei Metallica, “Lulu”, 2011, è destinata a spaccare critica musicale e fans, in ragione dell’accostamento quantomeno arrischiato in ordine a complementarietà di stilemi e filosofia musicali. Si tratta dell’ennesima sfida di Lou Reed, un’operazione alquantolou-reed-e-i-metallica ambiziosa, sostanziata in un doppio cd, un tentativo spericolato di rappresentare in musica l’opera teatrale dello scrittore tedesco Frank Wedekind, che consta di due frammenti: “Lo spirito della terra” e “Il vaso di Pandora”, da cui è estrapolato il personaggio di Lulu, essenza archetipica della femme fatale, figura suscitatrice di scandalo e di oscure e rovinose pulsioni sessuali.

 lulu

La protagonista finisce squarciata dalle lame fatali di Jack lo Squartatore. Il corrispettivo cinematografico a cura di G.W.Pabst nel 1928, suscitò scalpore. Alban Berg ne diede, altresì, una riduzione musicale assai apprezzata. Un’opera rock in pieno stile, in cui Lou si avvale come d’un braccio metallico, roboante e potente, del gruppo heavy metal per ‘constringerlo’ a suonare in maniera volutamente distorta, stravolgendone i canoni sonori abituali. Il consiglio, nell’approcciarsi a quest’album, per chi voglia accepirlo serenamente come tale e senza pregiudizio alcuno, è di attendere almeno dieci anni prima di trinciare giudizi definitivi su questa affascinante, controversa e complessa operazione. La lezione di “Metal Machine Music” è LouReedRimesRyhmesCoverancora troppo presente per lasciarsi andare a conclusioni eccessivamente disinvolte. Anche allora un album definito scandalosamente antimusicale per antonomasia, è stato rivalutato nei decenni successivi, fino a essere additato come fulgido esempio di pregevole musica sperimentale. Nel 2012 esce un libro fotografico , corredato di trecento foto scattate da Lou, con testo bilingue in francese e in inglese, in collaborazione con lo scrittore e traduttore francese Bernard Comment, “Lou Reed: Rimes/Rhymes". In seguito a un trapianto di fegato, subito nel maggio del 2013, le condizioni di salute di Lou si mantengono stazionarie, sebbene tendano a suscitare un certo ottimismo circa una loro positiva evoluzione.

 

One sunday morning

 

Invece, purtroppo, nei mesi successivi il suo stato clinico si aggrava irreversibilmente, e Lou (che nel frattempo ha sposato la sua compagna Laurie Anderson, che lo accudirà amorevolmente fino alla fine, insieme all’inseparabile Maestro di Tai Chi), esala l’ultimo respiro tra le braccia di Laurie. E’ il lou-reed-e-laurie-anderson27 ottobre del 2013. Una domenica mattina. Sunday Morning ... Una perdita irreparabile, un vuoto incolmabile per il mondo della musica dell’ultimo mezzo secolo. Un ponte spezzato a metà strada tra due diversi arcobaleni di note. Rimarrà la sua musica, geniale, ossessiva, provocatoria, compulsiva, esaltante, poeticamente malata, dall’infiammata vocazione al dolore, all’impossibile redenzione dai mali terreni, vera e propria tragica mistica del nulla. Lou Reed ci ha insegnato la parola esoterica dei morti, la via segreta per il paese nel quale i sogni giammai si avverano ma rendono migliore la vita.

   

Rocco Sapuppo

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