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14 Maggio 2012

Vintage Rock: Steamhammer I QUATTRO COLPI DI UN MARTELLO A VAPORE

1968-1973

Steamhammer PROFILOTra i massimi piaceri di chi si occupa di musica c’è quello di 'educare' (brutta parola) agli ascolti o quanto meno quello di far conoscere, attraverso prestiti di dischi, chiacchierate tra musicofili o articoli come questo, gruppi e bands che avrebbero potuto essere molto più apprezzati ma che per un motivo o per l’altro sono rimasti sconosciuti ai più. Gli inglesi Steamhammer sono tra questi. Dimenticati da quasi ogni enciclopedia musicale, autori di soli quattro albums che non troverete mai tra i 500 che hanno fatto la storia del rock, citando, benché a sproposito, il grande Claudio Lolli  'diciamo che valgono molto e solo hanno il difetto di essere nati un giorno tra i vinti dalla forza della vita...'.  Gli Steamhammer si formano nel 1968 per volere di Kieran White (voce, chitarra e armonica) e Martin Pugh (chitarrista), che inglobano il bassista Steve Davy, il batterista Michael Rushton, e un’altra chitarra nel nome di Martin Quittenton.

 

Transfughi del British Blues: Reflection

Dopo un annetto di prove generali e un tour dove aprivano i concerti del grande bluesman Freddi King, il gruppo esordisce con “Reflection”,  opera interessante gocciolante di blues al punto da far inserire, forse troppo frettolosamente, la band, nel fumoso calderone del nascente british blues al fianco di Groundhogs, Ainsley Dunbar Retaliation, Graham Bond Organisation, Alex Harvey e altri. La frettolosa etichetta è comprensibile: il disco è effettivamente intriso di blues come dimostrano la cover di Eddie Floyd Twenty-four hours, sette minuti di uno sporco e splendido bluesaccio chitarristico e canonico, e quella di B.B. King You’ll never knows, così come il resto dei brani dove, sarà stata l’aria del tempo, si ascoltano atmosfere Cream (Junior’s Wailing), Groundhogs (Lost you too e She is the fire), brani dove la voce di Kieran White è assolutamente identica a quella di Tony McPhee e ci sono addirittura echi dei Doors nella bella Even the clock che ospita flauto (il grande Harold McNair) e pianoforte (Pete Sears) a rimpolpare il quintetto originale. Flauto che la fa da padrone anche in Down in the highway condendo di spezie jazzy un sostenuto ritmo boogie. Tra le curiosità dell’album: Martin Quittenton che non appare, pur essendo protagonista assoluto come autore e chitarrista, nella foto di copertina e la rivendicazione da parte del gruppo del primo “effetto speciale sonoro” della storia del rock con la frenata e lo schianto da incidente stradale che aprono la breve e acustica On your road.

 

MK II

Nonostante la buona qualità dei brani, il valore dei musicisti (Quittenton su tutti) e la piacevolezza dell’ascolto, il disco riscuote una tiepida accoglienza perdendosi nei meandri di decine di album usciti in quel periodo, troppo simili tra loro, tra i quali gli ascoltatori fanno fatica a districarsi. La delusione è cocente: Michael Rushton se ne va imitato da Quittenton che non vede premiato l’impegno profuso in quel primo album. Il batterista viene sostituito dal drummer di Jeff Beck, Mickey Waller che, come una cometa, passa veloce senza incidere non solo neanche un disco, ma neppure nell’economia sonora del gruppo, velocemente sostituto a sua volta da Mick Bradley che vanta, se non altro, la passata appartenenza ai seminali Sorrows, mentre, a sorpresa, quella chitarra che era uno dei tratti distintivi di “Reflection” viene permutata con il sax, il flauto e addirittura il clavicembalo di tale Steve Jollife: tre al prezzo di uno. Ad onor di cronaca si dovrà sottolineare che la fuga di Martin Quittenton si rivelò per lui mossa vincente e lungimirante, poiché, pur non trovando fortuna nemmeno con l’oscuro gruppo dei Pilot, il chitarrista dopo qualche vagabondare approdò alla corte di re Rod Stewart per il quale scrisse un brano che scalò le classifiche mondiali e che ancora oggi incassa cifre vertiginose in diritti d’autore: Maggie May. Ma urgono cambiamenti se si vogliono scardinare le porte del successo a colpi di martello a vapore. “MK II” esce ancora nel 1969 stesso anno del disco precedente e i cambiamenti indubbiamente ci sono. In primo luogo nelle sonorità del gruppo e anche nello stile poiché l’albero blues degli esordi che non aveva fruttificato a dovere viene parzialmente accantonato. 

 

Blues e psichedelia

Supposed to be free che apre l’album è una canzonetta orecchiabile che in alcuni momenti, grazie al sax, rimanda ai Colosseum, impreziosita dall’assolo congiunto di sassofono e chitarra wah-wah. Sunset chase è un divertissement di meno di due minuti per sola chitarra acustica ad opera di Martin Pugh, con reminiscenze folk irlandesi e celtiche, Passing Through è una bella ballata con chitarra psichedelica mentre se vogliamo ascoltare il buon vecchio blues dobbiamo dedicarci a Contemporary chik con song. L’uso del clavicembalo in alcuni brani, Johnny Carl Morton, Turn around, spesso doppiato dal flauto è invece piuttosto straniante, quasi fuori luogo, conferendo una patina di prodromi progressive se questa parola fosse già stata inventata.  E abbiamo tenuto per ultimo il capolavoro dell’album, quella Another travelling tune dove il nostro quintetto riesce in un piccolo miracolo; quello, come si dice, che vale da solo il prezzo del biglietto, cioè prendere una base di blues canonicissimo che neanche Muddy Waters e rivestirla, per ben oltre sedici minuti, di una psichedelia soffusa ed ovattata; a partire dall’inizio flautatoSteamhammer bucolico e indianeggiante, per poi germogliare in un susseguirsi di assoli di sax, di chitarra, di percussioni e di flauto, in un’atmosfera acida, ma sognante e surreale come un dipinto di Betty Swanwick. “MK II”  in versione originale finirebbe qui, ma poiché la copia in mio possesso è una riedizione Repertoire Records del 1992, vi sono quattro bonus tracks che per la loro qualità mi piace segnalare.

 

Si tratta dei due singoli pubblicati all’epoca che contengono, nel primo, la già conosciuta Junior wailing che apriva il long playing precedente qui in una versione leggermente diversa, e la ballata doorsiana Windmill mai pubblicata su LP a firma dell’ancora presente Quittenton.  Il secondo singolo contiene invece due interessanti brani anche questi inediti su album che risalgono al periodo di “MK II”.  Autumn song con flauto e voce nasale di Kieran White è presa di peso dal catalogo dei primi Jethro Tull, al punto che come scansione ed andamento sembra un’outtakes di “This Was”. Il cosiddetto lato B propone invece un’atmosferica e lenta song, Blues for passing people, strumentale da night club fumoso con sax, armonica e chitarra dal piacevole sapore jazz. Il tutto, come già detto, reperibile sul secondo album in edizione CD Repertoire (REP 4236-WY). Ma anche questa volta le cose non vanno molto bene. Nonostante i giudizi positivi della critica più attenta, i compratori di dischi snobbano il quintetto che, non ricevendo le attenzioni e le soddisfazioni che meriterebbe viene colto da un’altra crisi di sconforto. Questa volta è Steve Jollife a fare i bagagli; si carica in spalla flauto, sassofono e clavicembalo e trasloca a casa dei Tangerine Dream.

 

 Il rock blues vigoroso di Mountains

I quattro rimasti, non si capisce se per ripicca verso la scena inglese o per la manifesta ostilità di questa, abbandonano il suolo albionico per emigrare anch’essi nella più ospitale terra germanica. Qui nel 1970 gli Steamhammer pubblicano “Mountains”, forse la loro opera più compiuta e interessante, con predisposizione a una maggiore durezza rock blues essendo assenti le atmosfere più lievi di Jollife, come dimostrano la vigorosa e bellissima I wouldn’t have thought  e la tellurica Walking down the road. La straordinaria Hold that train è un rock blues che mostra i muscoli registrato dal vivo al Lyceum di Londra mentre più dolci e ispirate sono il super classico Levinia e la stessa Mountains che da il titolo al disco. Da segnalare ancora, l’irruente cavalcata di dieci minuti di Ridin’ on L & N cover di un brano del 1946 del vibrafonista jazz Lionel Hampton che ha avuto in sorte di essere acquisita in toto da qualsiasi gruppo blues inglese che ne ha fatto una propria versione (ricordo quelle di John Mayall, Nine below zero, Dr, Feelgood, Chris Farlowe), per i più curiosi diciamo che L & N era la ferrovia Lousiana-Nashville ispiratrice di tanto blues americano).

 

Speech: il capolavoro sincretico che precede la fine. Tra progressive ed hard

Ma ancora un’altra volta conflitti interni, delusioni e mancanza di successo minano le fondamenta della band, ed è proprio uno dei pilastri fondamentali, quello che reggeva tutto e che aveva gettato le basi del palazzo che crolla miseramente: Kieran White se ne va,  per tentare, senza nessuna fortuna, la carriera solista dopo un breve passaggio nei Nucleus. Anche Steve Davy toglie il disturbo e Pugh e Bradley si guardano negli occhi: una chitarra e una batteria cosa possono fare da sole in quel mondo difficile? Ma quando l’ala dello scioglimento sta per volare sopra le loro teste ecco che arriva un tizio che li esorta a continuare: si chiama Louis Cennamo e suona il basso, ha suonato con gli Herd, coi Renaissance e con i Colosseum.  Il trio si mette in moto e nel 1972 arriva “Speech”, quarta prova a nome Steamhammer. E’ opera ambiziosissima; sembra quasi che i tre vogliano ribadire il 'riuscire a farcela' nonostante tutto.

 

Ingredienti di rock progressivo si amalgamano con atmosfere più hard e con sfumature jazzy, il blues degli esordi è del tutto dimenticato, le parti cantate sono, ovviamente, ridotte all’osso: due soli brani in un album prevalentemente strumentale che si apre con l’immaginifica suite di oltre venti minuti Penumbra suddivisa in cinque movimenti, il primo dei quali, Entrance, comincia con il suggestivo contrabbasso di Cennamo che stride suonato con l’archetto per poi aprirsi alle sonorità di una chitarra psichedelica che svisa supportata da un Bradley sempre più bravo dietro la sua doppia cassa.  Il tutto sfocia dopo un lento brano cantato, in territori jazz di notevole atmosfera nel frammento Passage to remorse quando David Plugh si incarna in John Cipollina in una lunga cavalcata chitarristica dai sapori persino weast-costiani.

 

Ma tutto l’album è notevole; non contenti del gigantismo della suite iniziale, anche il secondo pezzo Telegram è una fantasmagorica mini suite dove in dodici minuti i tre caballeros danno il meglio di loro stessi con diversi cambi di tempo e di colori spruzzati nei solchi di questo ottimo e poco conosciuto album che termina, purtroppo, in modo Steamhammer Luois Cennamoinconsapevolmente triste. For against è ancora un bellissimo brano ispirato e convinto, ma il destino vuole che finisca, così come finisce il disco, con un creativo assolo di batteria di Bradley che sfuma nel silenzio della fine. E’ il suo saluto, il saluto inconsapevole che neanche lui avrebbe immaginato. Soltanto pochi mesi dopo Mick Bradley muore improvvisamente per una forma di leucemia fulminante lasciando attoniti i suoi compagni che incapaci di colmare quel vuoto decidono di mettere fine agli Steamhammer. Tutti i vari musicisti che si sono susseguiti nel gruppo avranno future carriere senza infamia e senza lode. Ma gli Steamhammer, che certamente chiudono la loro storia senza infamia, qualche lode in più l’avrebbero forse meritata.

 

Le vicende ed i destini degli Steamhammer e di Martin Pugh si incrociano poco dopo nuovamente con quelli degli ex Renaissance Keith Relf e Louis Cennamo, nel progetto molto ispirato "Armageddon", disco pubblicato nel 1975, con Bobby Caldwell alla batteria. 

 

 

Maurizio Pupi Bracali

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