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12 Novembre 2016

Leonard Cohen Morte Di Un Poeta Dell’Ombra

2016

cohen                             1934 - 2016

 

Vi sono artisti che tracciano la via per le generazioni future, senza volerlo. Sentieri di luce scavati nella tenebra, splendore carsico che riaffiora solo nei cuori di chi si perde nell’ombra di un crepuscolo, in un grigio velario d’autunno, tra foglie di senso incenerite all’origine. Leonard Cohen è uno di questi. Un poeta che salpa per le regioni del morire, come il cacciatore Gracco di kafkiana memoria, sul suo veliero di note destinato al naufragio. Perché Leonard è stato il veliero e, insieme, il mare che ne viene solcato, la luce che vi sfolgora sopra e, insieme, l’oscurità che discende su di esso come un falco dalle ali di tenebra. Se n’è andato in silenzio, così come in silenzio aveva varcato le soglie di un monastero Zen, anni fa, per murarsi entro pareti di inviolabile spiritualità, tenendone fuori i demoni molesti della quotidianità più gretta e inautentica. Ed è vero che Cohen, prima di essere musicista, aveva bevuto alle sacre fonti della poesia, già negli anni canadesi, e poeta ha continuato a essere sempre, letterato finissimo; poesia che ha sempre trasfuso nei testi, spesso immortali, delle sue canzoni.

 

COHEN FOTO 1Gli fu assegnato il premio Principe delle Asturie, massimo riconoscimento spagnolo alle arti letterarie, non a caso. Autore di opere poetiche e narrative di primo livello ("Flowers For Hitler", "Beautiful Losers"), l’utilizzo dei canoni musicali lo consacra agli onori della cronaca, con album che iniziano a germogliare in età matura, più che trentenne, e brani imbevuti di tristezza e sensazioni d’abisso. Tuttavia, con un tasso di classe talmente elevato da colpire immediatamente nel segno, già dal 1967, in piena era beat e con la cultura hippie in pieno rigoglio. Controcorrente, come è sempre stata la sua opera, pregna di umori intimistici e umbratili, con brani già alonati di leggenda quali Suzanne, Sisters Of Mercy, So Long, Marianne, dedicata alla sua musa eterna. Una voce tessuta nel buio della desolazione COHEN COVER 2umana, profonda come una plaga infernale ma venata di bagliori d’infinito, un impianto musicale essenziale, midollo scorticato del suono ossificato e frale, scheletrico canto degli elementi bruciati sul nascere da raggi ebbri di pietà e ferocia. Il successo giungerà dopo, annunciato da lontano da tamburi velati di nero, passando per dischi quali “Songs From A Room” del 1969, e, soprattutto, “Songs Of Love And Hate” del 1971, con tracce favolose come Bird On The Wire, The Partisan, Seems So Long Ago, Nancy, e ancora: Avalanche, Famous Blue Raincoat, Joan Of Arc. Ogni frammento, un classico della canzone planetaria, un segmento di leggenda nel panorama musicale, un solco scavato nella roccia alla ricerca della fonte della pura poesia.

 

COHEN COVER 3Una fama meritata che va consolidandosi con dischi quali “New Skin For The Old Ceremony”, del 1974, e altre perle come Chelsea Hotel e Who By Fire, tra le altre. Una parabola artistica che si snoda, tra depressioni cosmiche e attimi di euforia compositiva, tra dischi solo dignitosi e capolavori, ma sempre all’insegna di una tragica grandezza. Così, spigolando nella sua preziosa discografia, ci si imbatte in album quali “Various Positions” del 1984, scrigno contenente gemme del livello di Dance Me To The End Of Love e, in specie, Hallelujah, autentica icona della canzone d’autore, rivisitata sovente da miriadi di artisti; e poi, “I’m Your Man” del COHEN FOTO 21988, con tracce sublimi come la title-track stessa, o Take This Waltz e Tower Of Song. Il suono è sempre brillante, i testi sono ispirati e dolenti e venati da una melanconica profondità poetica. La crisi spirituale ed esistenziale, però si approssima, passando ancora per un grande disco come “The Future” del 1992, cupo affresco di tempi tuffati nell’apocalisse sorda della contemporaneità. Oscurità vissuta come statuto mentale, senso di vacuità declinato in parole e note, The Future, Waiting For The Miracle, ricerca disperata di improbabili redenzioni. Quell’ansia di quiete interiore che lo reca, lui ebreo, sulle cime del monte Baldy, in California, in un monastero buddhista, dove si reclude con l’appellativo di Jikan, il Silenzioso.

 

COHEN FOTO 3Sono anni di scomparsa dal mondo, di chenotico svuotamento dell’io nella dimensione ovattata dell’ombra, dalla quale emergerà fortificato e mutato sin dentro le fondamenta dello spirito nei primi anni del 2000. Il ritorno alla musica, all’incisione discografica, risente di questa pace riconquistata, sebbene la sua visione del mondo sia sempre tessuta da trame di dolorosa coscienza del niente. I dischi degli ultimi anni, per quanto abbiano perduto in freschezza compositiva, sono pregni di melanconica e vesperale poesia, la voce sempre affondata nel bitume e ubriaca di ruggine, le parole che scavano la carne in cerca del definitivo abisso. Dischi sorprendentemente intensi: “Ten COHEN COVER 4New Songs” del 2001, con brani splendidi come In My Secret Life, A Thousand Kisses Deep, o “Old Ideas” e “Popular Problems”, rispettivamente del 2012 e del 2014, fino allo splendido tassello finale del 2016 “You Want It Darker”, testamento oscuro di un geniale cantore delle cose ultime, uscito pochi giorni prima dell’ingresso di Cohen nel suo definitivo ciclo lunare. A suggellare in lettere d’oro e di fuoco un cammino artistico e umano tra i più esaltanti dell’ultimo mezzo secolo. Maestro di vita e d’arte, ci mancheranno la sua classe cristallina, la sua poesia dell’abisso, il suo dolente e pietoso sguardo sul mondo. So long, Mister Cohen.   

 

Rocco Sapuppo

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