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28 Ottobre 2016 , ,

PJ Harvey 24 Ottobre 2016, Firenze, Teatro Obihall


pj_field_day_Review_750La seconda ed ultima tappa italiana del tour di PJ Harvey tocca la città di Firenze. Polly Jean approda al Teatro  Obihall accompagnata da una strepitosa band per portare in scena l’ottimo “The Hope Six Demolition Project. Era il 28 novembre del 1995 quando Ben Harper & The Innocents apriva il concerto di  PJ proprio lì, dove all’epoca sorgeva il celebre Teatro Tenda. Più di vent’anni fa, quindi. Nel frattempo la Harvey è divenuta una delle musiciste rock più importanti della nostra epoca e il suo sound è mutato, evolvendosi oggi in qualcosa di simile a un blues metropolitano. Sono passate da poco le 19.30 quando finalmente all’Obihall si aprono i cancelli. C’è chi si assicura i posti davanti alla transenna, chi fantastica sull’abbigliamento che sfoggerà stasera Polly Jean. Altri ipotizzano scalette, aperture e chiusure del concerto. Alle ore 21:30 la sala è ormai gremita. Di lì a poco cala il buio e la folla acclama la sua regina. Avvolti dalle tenebre entrano in fila i musicisti, tra cui spiccano John Parish, Mick Harvey, Jean-Marc Butty e Terry Edwards.

E poi eccola PJ, completo nero, sax alla mano, piume tra i capelli e sguardo fisso verso il pubblico. Sulle note di Chain of Keys inizia finalmente il concerto. Il sussulto però arriva subito dopo con la superba The Ministry of Defence, in cui viene fuori tutta la potenza di una band di dieci elementi (nove più Polly Jean) perfettamente rodata e bella da vedere, il cui suono rasenta il concetto di perfezione. E il finale con Terry Edwards che suona due sax contemporaneamente è un’ immagine difficile da dimenticare. Come d’altronde è difficile scrollarsi dalla mente gli sguardi scintillanti che PJ getta costantemente sulla gente in sala durante l’intero live. Magnetica, mistica, ipnotica, sensuale.

La Harvey è un’ artista nel pieno delle sue energie, capace di prendere il pubblico tra le mani fin da subito. E lo dimostra sfoderando tutto il suo fascino attraverso uno show efficace, carico di emotività e praticamente perfetto, che vede una scaletta infarcita per lo più da brani tratti dall’ultimo disco. Arrivano quindi in sequenza The Community of Hope, The Orange Monkey e A Line in the Sand. C’è poi spazio per Let England Shake, The Words That Maketh Murder, The Glorious Land e Written on the Forehead, tutte tratte dal precedente disco.

Sulle note di To Talk To You, Dollar Dollar e The Devil PJ mostra il suo lato più intimista e malinconico. Arriva poi The Wheel, e i ritmi si fanno nuovamente alti. Il blues poderoso di The Ministry of Social Affairs ci regala uno dei momenti migliori del live, con Terry Edwards che sale di nuovo in cattedra imbracciando un sax bianco latte da cui scaturisce un assolo vertiginoso. C’è anche il tempo di vedere all’opera la PJ Harvey più spigolosa, quella di “Rid Of Me” (50ft Queenie è un’ esplosione di energia che smuove l’intero teatro) e “To Bring You My Love” (Down By The Water e To Bring You My Love sono un agglomerato di sensualità). Con River Anacostia si era chiusa la prima parte di uno spettacolo riuscito, fatto di gesti e danze, concepito con una coreografia ben definita. Uno schema collaudato e vincente che non lascia spazio alle sbavature. Nessuna interazione con il pubblico, PJ procede imperterrita per la sua strada, giusto qualche parola per presentare la “sua band”, che vede in formazione anche due talenti italiani: Enrico Gabrielli e Alessandro Stefana. Giunge poi il bis: Working for the Man e Is This Desire?, con la folla praticamente in estasi, che hanno il compito di chiudere il concerto e mandarci a casa consapevoli di aver assistito a qualcosa di davvero straordinario.  

 

Michele Passavanti

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