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13 Maggio 2013 , ,

Bevis Frond 10 maggio 2013, United Club, Torino


bevisfrondlocandinaIn occasione del primo concerto di Bevis Frond a Torino, dopo soli ventisei anni dall’uscita del suo primo disco, lo United si trasforma per una sera in uno squat di Ladbroke Grove. L’epoca è imprecisata: potrebbe essere il 1968, quando il Nick Saloman quindicenne schitarrava su palchi improvvisati sognando di emulare Cream e Jimi Hendrix, oppure il ‘77, con il sogno hippy in frantumi ma l’energia del punk a iniettare di nuovo energia e voglia di provarci, oppure ancora un giorno qualsiasi di quegli anni 80 in cui “resistere” significava anche aggrapparsi a un suono che usciva dalle viscere dell’underground, sporco e distorto, figlio della psichedelia ma modulato su quei tempi cupi. Il pubblico, abbastanza numeroso, raccoglie reperti di ognuna di queste epoche: chiome lunghe e grigie quasi coetanee di Saloman (classe ’53), diversi rappresentanti della vecchia guardia eighties, e pure qualche giovane alla ricerca di vibrazioni che le chitarre flosce e beneducate di troppi gruppi indie di oggi non sanno più offrire.

 

Alla fine, non ce ne sarà uno che se ne andrà senza un sorriso di beatitudine stampato in faccia. Immersa in un light show gradevole e perfettamente in tono con la musica, la band inglese regala un’ora e mezza di pura magia psych’n’roll. A fianco del leader - come quasi sempre negli ultimi vent’anni - il fido luogotenente Adrian Shaw, veterano di mille battaglie freak (dagli Hawkwind ai Magic Muscle), che con il suo basso tiene in riga il suono alternando possenza alla Black Sabbath e accelerazioni alla Motorhead. Alla chitarra e alla batteria i più giovani Paul Simmons e Dave Pearce, a rafforzare la sensazione che la formula a quattro sia quella ideale per il vecchio Frond. E poi appunto, c’è lui. Nonostante la generazione e l’estrazione culturale cui appartiene, Nick è uno che non ha maibevis frond frequentato le droghe (neanche le palestre, a occhio), il che gli ha permesso di mantenere un tocco chitarristico lucido e preciso – anche se un po’ gigione, come quando maneggia una chitarra-sitar che neppure nei film di Austin Powers - ma soprattutto un solido talento da songwriter.

 

Dopo venticinque album, se riesci a buttare giù pezzi come Reanimation (dal penultimo disco, “The Leaving of London” ) o Begone (dal nuovo, strepitoso "White Numbers” ) significa che l’ispirazione c’è ancora, intatta e immacolata. Sono i due brani che aprono un concerto nel quale si pesca un po’ dappertutto nello sterminato repertorio frondiano. Dalle anticaglie estratte dai mitologici esordi – quelli con le copertine alla Lovecraft -  “Miasma” e “Inner Marshland” (Confusion Days, Maybe, Reflections In A Tall Mirror : niente Splendid Isolation o Eyes In The Back Of My Head, purtroppo, per il dolore del sottoscritto) alle poche ma inevitabili perle scelte dal capolavoro del ’91 "New River Head “ (la dolcezza folk-rock di He’d Be a Diamond, il romanticismo floydiano di Stain On The Sun), passando per testimonianze anni 90 dell’istinto pop di Saloman (That’s Why You Need Us, la ballata High On a Downer, per la quale viene ironicamente richiesto "un po’ di silenzio, shhh”). Non può mancare il quasi-hit (nella versione di Mary Lou Lord, si intende) Lights Are Changing, bevisfronduna meraviglia di canzone che in qualche universo parallelo avrebbero potuto scrivere a quattro mani Roger McGuinn e Bob Mould.

 

La vera forza di questo guru psichedelico di Londra Ovest (da qualche anno in realtà trasferitosi ad Hastings) sta proprio nel saper mescolare sixties  e Husker Du, garage e Dinosaur Jr, mentre il suo tallone d’Achille è sempre stata l’inquietante tendenza alla jam acid-rock/hendrixiana. Fortunatamente questa sera prevale il primo aspetto, con sollievo di chi sapeva che sull’ultimo album si trova una minacciosa Homemade Traditional Electric Jam di QUARANTADUE minuti. Nel bis c’è ancora tempo per High On A Flat (la ricordiamo su un flexi di Bucketfull Of Brains con sul retro una cover di Blind Willie McTell fatta dai Dream Syndicate… aaaah, those were the days) e Parchment Farm, che sarebbe di Mose Allison ma tutti la conosciamo grazie ai Blue Cheer. Cerchio chiuso, eccoci tornati al ’68. Finito il concerto, il nostro eroe raccatta chitarre, pedaliere e amplificatori, proprio come quando a quindici anni se li portava fantozzianamente in giro sulla metropolitana londinese. Che tu possa ancorabevis frond correre a lungo, vecchio Nick: la sezione torinese di Walthamstowe ti saluta e ti ringrazia.

 

 

 

setlist:

 - Reanimation

- Begonebevis frond adrian shaw torino

- Confusion Days

- Maybe

- Olde Worlde 

- Reflections In A Tall Mirror

- He’d Be a Diamond

- Stain On The Sun

- That’s Why You Need Us

- High On a Downer

- Lights Are Changing

   BIS

 - High On A Flat 

- Parchment Farm

 

 

 

Carlo Bordone

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