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25 Febbraio 2012

Simon Reynolds POST- PUNK (Rip it up and start again)

2006/2010 - ISBN Edizioni

Nel mio vagabondare per la splendida Firenze mi sono imbattuto l'altro giorno in una bancarella che vendeva libri usati: in bella mostra figurava questo tomo di Simon Reynolds, dal titolo esplicativo "Post Punk" , anche se l'originale era "Rip it up and start again" titolo preso a prestito da una canzone dei mediocri Orange Juice.  Il libro veniva originariamente venduto all'astronomico prezzo di 35 euro, un'enormità tenuto conto che sì, conta di 700 pagine, però ha una qualità modesta di carta e presenta poche illustrazioni, tra l'altro tutte rigorosamente in black & white.  La copia era offerta a ragionevoli 15 euro, le note interne descrivevano questo Reynolds 'il più grande critico musicale vivente' e 'ha scritto sul Melody  Maker oltre aver collaborato sul New York Times e Rolling Stone',  insomma ce n'era a sufficienza per lasciarlo riposare in pace, e invece no, forse la bella copertina con tutto l'elenco degli eroi degli eighties mi ha fatto propendere per l'acquisto, insieme alla 'fama' riscossa dal libro. Purtroppo se avessi letto appena tre pagine dell'introduzione quando il nostro super critico rock dice 'il periodo dal 1978 al 1982 rivaleggia con i favolosi anni sessanta dal 1963 al 1967' mi sarei trasformato nel Guy Montag di Farheneit 451 e avrei dato fuoco al tutto o in alternativa avrei chiesto la riapertura delle cliniche per malati mentali.

 

Mio malgrado sono andato avanti con la lettura certo che Reynolds mi avrebbe regalato perle indimenticabili, cosa che è avvenuta puntualmente. Di Simon Reynolds ci eravamo già occupati per l'altro suo libro,"Retromania", e in quel caso Luca Verrelli  aveva analizzato molto  bene le sempre consistenti 500 pagine del volume in oggetto. Premetto prima di continuare che onestamente il libro è molto ben scritto, molto gustosi certi aneddoti, non si sa quanto veri od inventati.  Reynolds è molto bravo ad analizzare i personaggi del suo libro, la loro personalità, la loro indole politica, purtroppo è terrificante quando deve sbilanciarsi e dare un opinione musicale sugli artisti citati, e questo è molto grave essendo ritenuto un luminare del genere preso in esame, il post punk, e soprattutto perché a  chi legge interessa solitamente sentir parlare di musica, di buona musica. Certo di non stancare il lettore entro nel merito e vado ad elencare alcuni giudizi paradossali di Simon: I Wham e i Culture Club rappresentano una seconda New British Invasion paragonabile a quella sixties di Beatles, Rolling Stones e Kinks; definisce "The correct use of soap" il capolavoro dei Magazine (!) dimenticandosi di "Real Life", il vero capolavoro di Howard Devoto e c., insieme a "Secondhand Daylight";  definisce "epocale" un disco di Donna Summer; "Odyshape" delle Raincoats secondo lui ricorda "Rock Bottom" di Wyatt (?); gli Husker Du in "Zen Arcade" hanno melodie beatlesiane e armonie folk rock alla Byrds (??); "Faust Tapes" è secondo lui il disco più acclamato dei tedeschi, mah! lo ha stabilito lui.

 

Procedo con le discutibili dichiarazioni di Reynolds? I Madness sono stati i nuovi Beatles, gli Ultravox avevano un suono feroce, il secondo Suicide è più ricco del debutto lo-fi , i Cream facevano tedioso blues (???), Joan Baez era una bigotta folksinger e via bestemmiando. Assolutamente imparziale e scandaloso nei giudizi e nello spazio dedicato ai veri protagonisti del post punk, The Cure, liquidati in 20 righe, Dead can Dance solo nominati, il capolavoro "World shut your mouth" per Reynolds non aveva niente della magia di Julian Cope, "Unforgettable Fire" degli U2 era "sorprendentemente sottotono", per finire con i dischi dei grandissimi Bauhaus che secondo questo pseudo intenditore "crollavano sotto la loro stessa ponderosa pretenziosità". Queste band seminali per Reynolds sono decisamente trascurabili, in compenso il genio della lampada fine scribacchino inglese  dedica ben sedici (16 !!!) pagine a Relax dei Frankie goes to Hollywood, nemmeno si trattasse  di Like a rolling stone di Bob Dylan. Quello che fa più adirare però il lettore, o almeno il sottoscritto, è che i suoi giudizi si basano sulla posizione in classifica raggiunta da un determinato singolo o album, dal numero delle copie vendute, e in particolare sui giudizi fondamentali - per Reynolds - delle principali testate giornalistiche inglesi, i tristissimi NME, Melody Maker e Sounds, come se questi diffondessero il vangelo rock.

 

Il forte, fortissimo dubbio che Simon Reynolds non abbia mai ascoltato gran parte dei dischi di cui parla è alto, per lui esistono solo gruppi che fanno tendenza e nuovo look o che sono estremisti sonori, qualsiasi band che propone sonorità avanguardistiche va bene, qualsiasi cacofonia è oro colato. E' davvero sorprendente che un libro di tale portata, sono 700 pagine ripeto, non presenti una discografia ragionata o i soliti album fondamentali tanto per dare le coordinate giuste al lettore meno esperto:  forse quando parlavo di scarsa conoscenza e pochi ascolti dei dischi migliori non mi sbagliavo, e questo è l'unico momento, involontario,  di umiltà che Reynolds si concede, insomma una doverosa e sana autocritica che prova a salvarlo dal naufragio. Detto ciò il libro ha incontrato e incontrerà tanti consensi tra lettori ignari, non  a caso è stato ristampato nel 2010 dalla Isbn a un prezzo più ragionevole, anche perché come dice lui stesso è uno dei pochi libri che tratta questo particolare genere musicale. Ma adesso per favore non fatemi più scherzi e rendetemi i miei quindici euro.

Ricardo Martillos
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