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8 Gennaio 2012

Simon Reynolds Retromania: Musica, Cultura Pop e la nostra ossessione per il passato

15 Settembre 2011 - ISBN Ed.

Il libro di Simon Reynolds (già autore del monumentale “Post Punk. 1978-1984”) coglie un aspetto fondamentale della cultura pop, nel senso più ampio del termine, degli ultimi dieci anni: l’ossessione per il passato, in tutte le sue forme, ciclicamente riproposto, (blandamente) rivisitato, tritato, spolpato, rinato dopo morte apparente. Viviamo in un’epoca che Reynolds definisce “ri-decennio”, caratterizzata da ristampe, reunion, revival, retro, riedizioni e così via, come mai era accaduto prima. Mai come in questi ultimi anni, infatti, il rock’n’roll aveva ricevuto le attenzioni del mondo dei media, del giornalismo, della cultura, in un tentativo comune di storicizzare il fenomeno, attraverso libri che tentano di fondare una vera e propria storiografia, attraverso documentari (i cosiddetti rockumentari) che raccolgono testimonianze dell’epoca, attraverso esposizioni, spettacoli, veri e propri musei che nel migliore dei casi tentano una ricostruzione analitica del passato, nel peggiore fanno leva solo sull’effetto nostalgia che alcuni avvenimenti della storia del rock possono creare (si pensi a tutta quella serie di prodotti finalizzati alla creazione di una vera e propria mitologia nostalgica sui Sixities).

 

"Retromania: Musica Cultura Pop e la nostra ossessione per il passato" - "Pop Culture's Addiction to Its Own Past"

Se nel 1977 il Punk aveva decretato la fine del futuro, o meglio la sua negazione, come gesto post situazionista (almeno nel caso dei Sex Pistols), e in un certo senso aveva già all’epoca riscoperto il passato recuperando, ma con metodologie e scopi (apparentemente) rivoluzionari e avanguardistici, le radici del rock’n’roll (per intenderci le radici del rock pre Sgt. Pepper), col passare degli anni (e con il sopraggiungere di quel futuro di cui all’epoca si parlava) il futuro in sé sembra essere scomparso per lasciare spazio ad un eterno revival del passato. I movimenti revivalistici ci sono sempre stati, specie in ambito rock. Prendiamo il garage revival degli anni 80, anni in cui per un (non tanto) piccolo gruppo di artisti, fan e discografici, gli anni Sessanta, quelli delle garage band e del garage punk (due termini, specie il secondo, inventati proprio negli anni ’80, e mai usati nei Sixties, trasportando il punk rock del ‘77 nei geni dei musicisti di 15 anni prima), proclamarono che il rock’n’roll avesse avuto il suo picco massimo tra 1963 e 1966 e che solo quello fosse il vero rock a cui rifarsi, da cui prendere spunto e da riscoprire. Ma il fenomeno garage revival può essere contestualizzato nella cultura postmodernista degli anni 80, in cui l’America riscopriva le sue “radici storiche” (con raggio cortissimo, retrocedendo di una ventina d’anni o anche meno), la propria età dell’oro, individuata appunto nell’adolescenza infinita degli anni Cinquanta e primi Sessanta, prima del raggiungimento dell’età adulta alla fine del decennio (a livello cinematografico non c’è neanche bisogno di citare alcuni titoli emblematici di questa atmosfera culturale come Ritorno al Futuro, American Graffiti, I Ragazzi della 56° strada, Grease, o serie televisive come Happy Days, che contribuirono in maniera decisiva a creare il mito – postmoderno – dell’età dell’oro del Rock’n’Roll).

 

Il museo del Rock'n'Roll

In che modo allora il revival di oggi si differenzia dai vari revival che hanno sempre caratterizzato la musica pop di fatto dagli anni Sessanta ad oggi (uno dei primi esempi: il blues bianco inglese di John Mayall, Stones ecc.)? A questa domanda intende rispondere il libro di Reynolds, e lo fa argomentando le sue tesi in quasi 500 pagine di straordinaria documentazione. Si parte da una considerazione di tipo sociologico: il Rock’n’roll non è più avvertito ormai come qualcosa di “rivoluzionario”, un soggetto che sta al di là (o al di fuori) delle logiche della comunicazione artistica tradizionale, un prodotto per una nicchia di utenti che rifiuta un certo stile di vita (i “giovani”?). Questa trasformazione sociale del rock si mostra in due operazioni: il museo del rock’n’roll e una serie di fenomeni collaterali (esposizioni, mostre, spettacoli a tema, ricostruzioni di storici concerti del passato), prodotti che snaturano l’essenza stessa del genere, che tentano di dare una luce di ufficialità ad un prodotto che per costituzione nasce come “non ufficiale” (piccola parentesi personale: la stridente sensazione di vedere una mostra sul punk rock fatta a Roma all’Accademia di Francia), e quella “bara” formato disco che è il cofanetto celebrativo, una sorta di monumento al valore di un dato movimento o di una qualsiasi band.

 

La Retromania e la Rete: Youtube, filesharing, blog musicali, Rapidshare, Megaupload

C’è poi una considerazione di tipo tecnologico da fare. La rete ha messo a disposizione di tutti una mole straordinaria di materiale: di fatto tra Youtube, filesharing, blog musicali, Rapidshare, Megaupload etc. non c’è nulla che non sia disponibile per le orecchie di tutti. Ma questa massiva invasione di musica ha portato un cambiamento nella fruizione, spostando l’attenzione dall’oggetto-disco (entità fisica, concretamente presente nella casa dell’ascoltatore, spesso recuperata con difficoltà) all’mp3, la cui inconsistenza oltre ad aver portato un calo della qualità sonora (impronta sonora vs. compressione della codificazione digitale) ha influito sulla modalità di reperimento (influenzato solo dalla velocità di connessione) di ascolto. Per dirla con Benjamin la digitalizzazione della musica ha portato ad una “perdita dell’aura”, ad un consumo fondato sull’accumulo facile (diverso dal vecchio collezionismo di dischi, operazione a volte feticistica), fondato sullo stoccaggio infinito di giga su giga di generi musicali, di brani, di intere discografie, ma di conseguenza l’ascolto e l’assimilazione si sono fatti da un lato più superficiali e aleatori (chi ha tutto non conosce tutto); dall’altro questo accumulo ha fatto sì che il recupero ossessivo e malato di completismo del passato abbia fatto calare l’attenzione sull’oggi. La grande contraddizione della musica digitale è dunque il divario tangibile tra facilità di accesso ai dati e incapacità, da parte dell’ascoltatore, di elaborazione di questi, dovuta ad un consumo di tipo bulimico delle informazioni.

 

Il Digimodernismo

La mania per il passato della musica di oggi, e anche per il passato recente (oggi si considerano vintage anche alcuni aspetti degli anni Novanta), ha portato ad una nuova tipologia di no-future, ma senza la carica sovversiva del punk, e senza il sentimentalismo (perché no, “romanticismo”) revivalistico degli anni Ottanta. Ha portato ad una sorta di ibridismo, in cui si tenta di costruire il presente (un presente digitale) attraverso il passato, la citazione, il revival. Ma non c’è niente di postmoderno in queste operazioni: secondo Reynolds infatti il postmoderno è finito, ed ha cessato di esistere non appena la rete ha messo tutto a disposizione di tutti. L’autore parla di “super-ibridismo” o di “digimodernismo”, e afferma che: “internet ha reso obsoleto il postmodernismo come strategia artistica, assimilandone i principi, rendendoli onnipresenti ed accessibili a tutti e naturalizzandoli in modo che formino il tessuto della vita quotidiana".  Insomma, una teoria sostituita ‘da una tecnologia che faceva lo stesso lavoro più efficacemente’. Il citazionismo degli anni duemila, la mania per il vintage ed il retro (si pensi a quei dischi interamente registrati con impianti analogici originali degli anni ’50), hanno stravolto il rapporto con il passato: se ancora il postmoderno aveva un certo rispetto per le fonti che citava e di cui si appropriava, e nel recupero del passato convivevano l’amore e la nostalgia per una qualsiasi forma di adolescenza e l’operazione intellettuale della citazione ammiccante (o anche operazioni più “avanguardistiche” come il detournement), il digimodernismo si pone in maniera diversa, non c’è più l’ironia intertestuale, non ci sono più i livelli di lettura diversificati, rimane solo questo “amore” incondizionato per tutto ciò che è vintage, acriticamente accettato molto spesso solo dal punto di vista formale. Le strategie di mercato ne risentono positivamente, d’altronde se è vecchio molto spesso vuol dire che funziona, quindi perché cercare di percorrere le incerte strade del nuovo se si possono ancora raschiare i fondi di barile degli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta, Ottanta e perfino Novanta? Perché quello che molti non capiscono è che molto spesso una cosa data per vintage è semplicemente vecchia.

 

Luca Verrelli
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