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1 Gennaio 2013

Luigi Abiusi Il film in cui nuoto è una febbre. Dieci registi fuori dagli schermi.

2012 - Caratteri Mobili

Il film copertina_il film in cui nuotoPrima pubblicazione cartacea partorita dal magazine on-line di critica cinematografica Uzak, "Il film in cui nuoto è una febbre” raccoglie dieci saggi su dieci registi contemporanei di straordinario interesse, il cui successo tra gli addetti ai lavori, e nell’ambito dei maggiori festival internazionali, non è ripagato – almeno in Italia – dalla benché minima attenzione da parte del mercato, sia pure il mercato di nicchia del cinema d’autore. Dieci registi “invisibili” il cui lavoro e la cui opera, speso ripagata da riconoscimenti e premi, latita le sale italiane, non riuscendo a trovare una distribuzione nell’ambito di un mercato cinematografico nazionale ormai troppo schiavo di logiche commerciali e che non lascia il minimo spazio ad un cinema anche minimamente differente ed estraneo alla fruizione disimpegnata e meramente d’intrattenimento del cinema commerciale. L’appiattimento della proposta cinematografica delle sale italiane ha certo molte cause, il problema è innanzitutto culturale (anzi politico-culturale), dettato da un lato dall’assuefazione alla cultura massmediatica e berlusconiana (per usare una semplificazione che però coglie nel segno) e, dall’altro lato dall’appiattimento della radicalità di sinistra ormai da tempo impegnata in un livellamento sempre più centrista.

 

Ma non può non essere anche un problema economico, quello cioè di un cinema ormai in mano alle grandi strutture che privilegiano le pellicole dall’incasso facile e garantito, cui si accompagna la sempre più massiccia scomparsa delle piccole sale in cui era più facile scovare cinematografie “altre”. Si è creato insomma uno strano paradosso per cui grazie ai multiplex è aumentato il numero di sale (specie nei cinema in provincia), ma a questo aumento di sale non corrisponde una diversificazione dell’offerta. Ci sono insomma piùolivierassayas sale in cui vengono proiettati gli stessi pochi film. Abiusi, nella prefazione al volume, parla giustamente di “ipermercatizzazione del cinema”, di “immagini concepite per il consumatore, inneggianti alla commedia del libero mercato e al consumo sempre ridente” specchio di un cinema che ormai non ha concorrenza nel panorama italiano perché si trova in una condizione di monopolio: è l’unico cinema programmato, visto, e soprattutto presto dimenticato dagli spettatori, un cinema insomma che ricalca i nostri tempi, orrendamente realista non perché fotografa la realtà, la scruta, la indaga o la critica, ma perché concepito ad immagine e somiglianza dell’ideologia dominante, acritico ed allineato, conformista nel profondo (esteticamente in primis) e soprattutto compiacente, sia che si dichiari apertamente disimpegnato o che sbandieri un presunto, quanto velleitario, engagement.

 

E soprattutto un cinema monolitico e centralizzato che non lascia spazi ad “un cinema decentrato, indipendente, espressivamente potente, che mostra sé e il mondo che cattura, come un enorme e sempre mobile, prospero palinsesto di microcosmi immaginali e per questo vivi e veri” (ancora dalla prefazione di Abiusi). Questo cinema è stato di fatto cancellato dalle programmazioni delle sale italiane (e per fortuna esistono vie alternative per accedervi, dai festival ad internet all’home video), flagellato da una programmazione che ha dimenticato il concetto di “diversità”, incapace di offrire gli spazi, pur piccoli, di cui questo cinema avrebbe bisogno. “Il film in cui nuoto è una febbre” offre una snella guida ad una diversa geografia del cinema mondiale, una mappa del cinema disperso, fuori dagli schemi, e di conseguenza dagli schermi, preso in esame con approccio diverso ma sempre ben approfondito, insistendo sul lavoro di dieci registi stilisticamente, geograficamente ed ideologicamente differenti tra  loro, con la sola caratteristica comune di essere sistematicamente ignorati (o quasi) dal mercato, non ostante i numerosi riconoscimenti.

 

yorgosl anthimosLa scelta dei registi presi in esame passa dalla Francia, con i saggi su Olivier Assayas (regista presente all’ultima Mostra del cinema di Venezia con “Apres Mai”, e autore di grandi film come “Irma Vep” o “Carlos”), Michel Gondry (forse il più noto al grande pubblico tra i registi trattati, vista anche la sua dimestichezza con spot pubblicitari e video musicali, ma mai allineato nelle sue scelte estetiche) e il “bressoniano” (ma poi neanche tanto, come ben spiegano gli autori del contributo a lui dedicato) Bruno Dumont. Si passa poi alle apocalissi borghesi dell’Austria di Ulrich Seidl, e alla Grecia di un regista interessantissimo come Yorgos Lanthimos, autore di tre film di forte sperimentazione sul linguaggio cinematografico (“Kinetta”, “Kynodontas” e “Alps”). L’Italia è rappresentata da Davide Manuli, i cui ultimi due film (“Beket” e “La leggenda di Kaspar Hauser”) sono, secondo chi scrive, tra le opere migliori prodotte in Italia nell’ultimo decennio. Il cinema asiatico è rappresentato dal regista di film-fiume filippino Luv Diaz e dal tailandese Apichatpong Weerasethkul, Palma d’oro a Cannes con “Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti”. Il continente americano, infine, è indagato attraverso i lavori dell’argentino Lisandro Alonso e della statunitense Kelly Reichardt. Ma questi dieci nomi non sono che la punta di un iceberg ben più profondo, dieci esempi di una tendenza che coinvolge molti più registi i cui film difficilmente approdano nelle sale italiane con una distribuzione degna di questo nome.

 

Apichatpong-WeerasethakulI nomi da fare sarebbero moltissimi pur volendo fare solo una lista sintetica: da Brillante Mendoza a Béla Tarr, dall’ultimo e meraviglioso “Holy Motors” di Leos Carax ai film dello statunitense Jeff Nichols; ma si potrebbero fare nomi commercialmente ben più appetibili: ad esempio, che distribuzione ha avuto “Twixt”, ultimo film di Francis Ford Coppola? E non raccontateci che questo è un cinema che non ha pubblico, o che è un prodotto invendibile: questo è solo il facile pretesto che nasconde le vere motivazioni, ideologiche e culturali, dell’invisibilità degli autori trattati nel libro. Il mercato, per come si è andato caratterizzando negli ultimi tempi, è sordo ed indifferente nei confronti di questi autori (e ben venga allora la scelta “anti-hollywoodiana” di Larry Clark, vincitore dell’ultimo festival di Roma, di distribuire il suo ultimo film solo su internet): questo cinema avrebbe soltanto bisogno di una piccola nicchia, ma il mercato è talmente anestetizzato da non essere in grado di garantire neanche questo piccolo spazio.

 

Luca Verrelli

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