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2 Marzo 2012

Umberto Bultighini - Gene Guglielmi – Claudio Scarpa AL DI QUA, AL DI LÀ DEL BEAT

2011 - Editrice Carabba

Quando si visita una città sconosciuta, sappiamo tutti come sia ben diversa l'esperienza se si ha la possibilità di farlo accompagnati da una persona che in quella città ci ha vissuto. L'amico o l'amica ci condurrà in angoli nascosti, in zone sconosciute ai circuiti turistici e soprattutto ci racconterà gli aneddoti e le storie che stanno dietro a monumenti e piazze. E' proprio una sensazione analoga quella che si ha leggendo il libro “Al di qua, al di là del beat. Radici e dinamiche del beat italiano: le voci di tre testimoni” pubblicato dall'editore Carabba e dedicato al beat italiano degli anni Sessanta. Difatti, i tre autori del volume sono - come specifica il sottotitolo – tre testimoni diretti di quell'epoca, tre persone che il beat e gli anni Sessanta li hanno vissuti.

 

E questo fa una bella differenza. Non solo i tre autori hanno vissuto quegli anni ma hanno continuato a raccontarli, in parole o in musica, pur dedicandosi successivamente ad altre attività lavorative. Umberto Bultrighini, ideatore del volume, e Claudio Scarpa in qualità di critici su riviste, libri e in programmi tv, e Gene Guglielmi come musicista ininterrottamente dagli anni Sessanta, fino al recente progetto di collaborazione con i Tubi Lungimiranti, che abbiamo potuto apprezzare dal vivo al Festival Beat di Salsomaggiore nel luglio scorso. Festival Beat che, per inciso, nel libro viene ricordato come uno dei festival che ancora oggi porta avanti lo spirito del beat anni Sessanta. Ma prima di arrivare così tanto “al di là del beat” in termini cronologici, il libro percorre in modo approfondito la strada “al di qua del beat”, partendo da alcuni presupposti di base. Innanzitutto, nessuna rievocazione nostalgica o memorialismo fine a se stesso, nessuna concessione al concetto di revival così diffuso e definito dagli autori - in modo assolutamente condivisibile - “orrendo e fuorviante”, ma piuttosto un'analisi storica e filologica che parte dal riconoscimento di una «dignità culturale  del genere, [del]la sua appartenenza di diritto all'ambito dei 'nuovi saperi'».

 

Poi la volontà di non privilegiare, come spesso accade, l'aspetto sociologico e di costume né tantomeno quello politico nella consapevolezza che i capelli lunghi e le minigonne «quei dati di costume, quelle esibizioni-simbolo di volontà di rompere gli schemi della convenzione sociale bacchettona e retriva, erano nate da un impulso assolutamente autonomo, e fortemente legato all'impatto esplosivo della nuova musica, che resta l'elemento trainante di tutto il processo». Peraltro, la strumentalizzazione politico-ideologica, insieme allo sfruttamento commerciale per il mercato, sono stati, secondo gli autori, gli elementi che hanno segnato la fine del fenomeno beat. Fatte queste premesse, che vengono ovviamente approfondite maggiormente nei primi capitoli del libro, si affronta a 360 gradi e a più voci il fenomeno beat a cominciare dalla ricezione in Italia della letteratura della beat generation, per poi passare alle diverse altre tematiche: la musica, soprattutto la musica e i musicisti, noti e meno noti, la moda, la stampa musicale, le trasmissioni radiofoniche e televisive e il loro ruolo nella diffusione dei dischi beat, la storia del Piper Club di Roma, il ruolo (spesso deleterio) delle case discografiche, i festival e i cantagiri.

 

La seconda parte del volume raccoglie interviste ad altri protagonisti di quell'epoca, perlopiù raccolte da Claudio Scarpa e in alcuni casi già apparse sulla fanzine “Anni '60” da lui fondata nel 1987 o su altre riviste. Tra gli intervistati Victor Sogliani dell'Equipe 84, Mal dei Primitives, Gianni Dall'Aglio dei Ribelli, Ferruccio Sansoni dei New Dada, Sergio Magri dei Delfini, Renato Bernuzzi dei Kings, Roberto Guscelli dei Satelliti, Nico Tirone dei Gabbiani, poi i Jaguars, Gian Pieretti, Riki Maiocchi, Mauro Lusini, Roby Crispiano e diversi altri. Tanti gli aneddoti e i retroscena che emergono e che lasciamo alla curiosità di chi vorrà addentrarsi nella lettura di questo bel libro, ma tanti anche i temi chiave che vengono alla luce dopo la lettura di “Al di qua, al di là del beat”. Tra questi alcuni sono ricorrenti. Innanzitutto, il potere della RAI di approvare o censurare i musicisti, di imporre modifiche, anche sostanziali, non solo nel loro look ma anche nei testi delle canzoni. Situazione che ha condotto alcuni, come Mauro Lusini, autore tra l'altro del brano C'era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones, portato al successo da Gianni Morandi, a smettere di cantare i propri pezzi.

 

Poi il ruolo della SIAE, alla quale bisognava essere iscritti dopo aver superato un esame per poter firmare le proprie canzoni, cosa che ha portato molti musicisti e produttori a firmare composizioni in realtà ideate da altri oppure a farle firmare da autori fantasma. E ancora il ruolo dei discografici, spesso senza scrupoli poiché essenzialmente rivolti al guadagno, ma altrettanto spesso privi anche di capacità adeguate. Il tutto corredato da una scarsissima professionalità dei tecnici nelle sale d’incisione e ai concerti che,
sebbene in quegli anni fosse generalizzata anche al di fuori dell'Italia (se perfino i Beatles ebbero problemi sul palco nei loro concerti negli Stati Uniti), non ha certo aiutato la scena musicale nostrana. Tutto ciò colpisce ma non stupisce poiché, a ben guardare, molti di questi problemi purtroppo non sono risolti nemmeno oggi. C'è questo e molto altro da scoprire sui nostri anni '60 e sul beat nelle oltre 400 pagine di “Al di qua, al di là del beat”. Al libro è anche allegato un cd con brani di Gene Guglielmi e i Tubi Lungimiranti.

 

Rossana Morriello
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