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16 Marzo 2020 ,

My Dying Bride The Ghost Of Orion

2020 - Nuclear Blast Records
[Uscita: 06/03/2020]

Aaron Stainthorpe nel presentare il nuovo lavoro della sua lacerazione più felice - i My Dying Bride - ci ha tenuto ad avvelenare i pozzi del primo ascolto, dichiarando apertamente di aver costruito “The Ghost Of Orion” con l’occhio rivolto a sensibilità meno estreme. È col cuore gonfio di peccaminosi pensieri che ci si avvicina con cura a questo oggetto atteso con emaciata sofferenza, così come avevamo fatto per le tredici uscite precedenti. Ebbene la passione inizia con Your Broken Shore che può essere senza meno uno scarto di produzione di “Like Gods Of The Sun”, non inserito nella track-list definitiva per mancanza di mordente. Sia ben chiaro, gli elementi ci sono tutti, dallo struggimento alla sinfonia di chitarre al dolce piagnisteo di Aaron, ma tutto sembra di plastica, compreso il violino dell’impareggiabile Shaun MacGowan che stavolta ha il ruolo un po’ ingrato di far uscire le lacrime dalle orecchie del fan in cerca di sana tristezza. Discorso pressoché identico per To Outlive The Gods che insieme alla successiva Tired Of Tears va a formare il trittico «made in MDB 100%», o quasi. Qualche perplessità è indotta dall’introduzione alla batteria di un ex Paradise Lost, Jeff Singer, che con tocchi precisi e potenti toglie magia al rullante che tira indietro del quale in MDB sono stati maestri ineguagliati. Da qui in poi si recide il legame con il precedente “Feel The Mysery” pubblicato cinque lunghissimi anni fa. Da qui in poi si gioca la carta della composizione giocata su armonie più piane e tristezze meno morbose, cose se la serie dei brani ricapitolasse la lunga e travagliata gestazione dell’album coronata dal burrascoso cambio di etichetta, avvenuto giusto in tempo per sottrarre il disco dall’egida di Peaceville. È l’epifania di The Solace, la consolazione, più una intro soffice che non un vero e proprio brano; anche la forma dell’interludio viene scostata, la melodia non ha alcuno sviluppo definito né alcuna funzione rispetto al lavoro nel suo complesso; né tanto meno rispetto al seguito della track-list che scorre via su binari meno compromessi col passato. The Long Black Land segna forse il punto più lugubre dell’intero disco con le note affilate del violino che non riescono a strappare l’impasto di growl e malinconia che riverbera nell’interludio della title-track per dissiparsi nella controstoria evolutiva di The Old Earth. La ricapitolazione dell’umanità approntata da Aaron Stainthorpe e soci non brilla però né per scienza, né per passione così come la cover da scuola pittorica fiamminga minore firmata dall’inossidabile Eliran Kantor. La vena da madrigale nero è dissolta, evidentemente il chitarrista/fondatore Andrew Craighan deve aver risentito del clima di solitudine compositiva al quale è stato necessariamente abbandonato dall’assenza del suo sodale Aaron impegnato a sostenere la figlia che lottava contro una grave malattia. La ragazza è definitivamente guarita, così speriamo per la sposina morente che l’ha accudita e dalla quale forse ci aspettiamo sempre troppo.

Voto: 6/10
Luca Gori

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