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11 Maggio 2020

Mark Lanegan Straight Songs Of Sorrow

2020 - Heavenly Recordings
[Uscita: 08/05/2020]

Uno degli aspetti più contraddistintivi del mito del rock'n'roll è indubbiamente quello di essere inscindibile dalla tragedia: pochi sono i talenti ad averne scritto il grande libro e ad avere ancora voce per raccontarlo. Ma se c’è ancora qualcuno su questa terra che incarna così vividamente la figura del rock'n’roll survivor, questi è indubbiamente Mark Lanegan. Dalle architetture grunge di "Whiskey For The Holy Ghost" al pop-rock melanconico di "Somebody’s Knocking", attraverso le percussioni teutoniche di Bubblegum, Lanegan continua a portare avanti la tradizione della canzone americana con la sua dodicesima fatica, "Straight Songs of Sorrow" (Heavenly Recordings). La personale cattura di Cerbero della leggenda di Seattle si avvale dell’input creativo di un esercito di collaboratori di prima classe, tra cui John Paul Jones, Greg Dulli (The Afghan Wigs) e Warren Ellis (Nick Cave & The Bad Seeds), sapientemente coordinati dal geniale (e sottovalutatissimo) polistrumentista Alain Johannes (Eleven, Queens of The Stone Age, Chris Cornell) in veste di co-writer e produttore. Reduce dalla pubblicazione del suo memoir Sing Backwards And Weep uscito ad aprile, l’icona del rock alternativo americano affronta in questa monumentale opera di quindici tracce gli stessi demoni da lui intrappolati con brutale onestà su carta: abbandono, dipendenza e disperazione, contrapposti ad un’inaspettata redenzione materializzatasi in una carriera solistica di successo nella seconda metà degli anni ’90.  Nella opener I Wouldn’t Want To Say, il disco si presenta immediatamente con un attacco crudo e ricco di atmosfere industrial; proprio in un ripetitivo intreccio di beat secchi, loop di sintetizzatore e glitch elettronici si distende l’idiosincratico ruggito di Lanegan, che rimbomba profondamente nella cassa toracica fino ad essere inghiottito in una nebbia di fuzz e noise. L’overture dell’album sintetizza perfettamente il concept e l’atmosfera generale del disco: una lenta, riflessiva ed oscura meditazione sui demoni del passato che, sia liricamente che strumentalmente, vengono fugati da spiragli di luce in fondo al tunnel. Il cristallino impianto poetico di Lanegan è accompagnato da una complessità compositiva varia e matura: mentre il fulcro dell’originalità dell’artista rimane saldo su blues cupi, lo stile e la forma acquistano sfumature decisamente più gotiche ed arricchite da arpeggi di mandolini, wurlitzer, arrangiamenti orchestrali e di violino (del Bad Seed Ellis), centrali in pezzi dal profilo notevole quali Daylight In The Nocturnal House, Stockholm City Blues e At Zero Below. La formula vincente del disco (nonché essenza fondamentale di Lanegan come solista) è una sconsacrata comunione tra una scrittura dolorosa ma vulnerabile alla Leonard Cohen (dal quale è sicuramente ispirato il titolo del disco) e un’espressione sonora di quest’ultima pesante e d’impatto alla Tom Waits. Il tratto così violento dell’arte di Lanegan traspare maggiormente in pezzi cupi e baritonali quali Ketamine, Bleed All Over e Ballad Of A Dying Rover, nei quali il buio della storia del cantante traspare attraverso un solido connubio di suono e parole. All’interno del disco troviamo anche delle ballate, divise tra melanconici fingerpicking acustici (Apples From A Tree, Hanging On) e notevoli sperimentazioni elettroniche (Churchbell Ghosts, This Game Of Love), che ci guidano verso esiti di redenzione artistica con gli archi ascendenti di Eden Lost And Found, in cui il musicista trova finalmente la pace (Daylight’s calling me / Everybody’s got to be free). Quest’ultimo lavoro dell’highlander della specie singer-songwriter e trascurato eroe della musica moderna rappresenta un’altra valida esperienza nel suo già prezioso curriculum: è una danza tra i fantasmi del suo passato, un rituale di auto-esorcismo celebrato da qualcuno che ha trovato salvezza nella musica, capace sia di riconoscere la propria oscurità interiore, sia di affrontarla e volgerla in speranza. Una storia di liberazione che, nella difficoltà dei nostri giorni, accogliamo a braccia levate.

Voto: 7/10
Gabriele Bartoli

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