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28 Ottobre 2019

Nick Cave & The Bad Seeds Ghosteen

2019 - Ghosteen Ltd
[Uscita: 04/10/2019]

Il lutto è un rito di passaggio che marchia a fuoco la pelle e tempra la carne e le ossa al freddo degli inverni a venire. Si può attraversare un passaggio stretto facendo a pugni con la nebbia rischiando di sembrare pazzi, eppure rimanere se stessi, imparando a parlare altre lingue prima sconosciute.

La morte del figlio Arthur ha segnato “Skeleton Tree”, ha imbevuto come una spugna ogni singola nota, ha destrutturato il suono in una tempesta elettrica che disturbava le sinapsi dei pensieri, rompendone la linearità dell’andamento. Oggi, “Ghosteen” è allo stesso tempo commiato dalle stanze logore della memoria e perdono di sé, quello che Nick non si era concesso prima, e adesso diventa pulviscolo atmosferico pronto a colorarsi alla luce del sole. “Ghosteen” è un disco struggente, di una malinconia a tratti insostenibile per le profondità delle pieghe di una narrazione dell’assenza che conduce al nucleo di un abisso privato. In questi nuovi brani si percepisce il medesimo pudore avvertito in “Skeleton Tree”, proprio nei momenti in cui il cantato si increspa diventando dannatamente umano, trasformando l’imperfezione in arte assoluta. “Ghosteen” è l’album che si distacca di più dal decadentismo di impronta Bad Seeds, destinato ad essere un unicum nella produzione di Nick Cave, proprio per la particolare caratteristica di un mood etereo e sfuggente, quasi una faccenda del tutto personale che spinge gli altri musicisti a fare un passo indietro. “Ghosteen” è un luogo simile ad una stazione vuota, con solo una persona ad attendere sui binari un treno che non passerà. L’album è strutturato in due parti complementari: la prima, con otto brani, dà idealmente voce ai bambini, la seconda di tre brani fa parlare i loro genitori. L’apertura è affidata a The Spinning Song che costituisce l’innodia intima di un mistero doloroso officiato ad occhi chiusi, il successivo The Bright Horses è il brano più immaginifico, una tela su cui danzano cavalli liberi su un campo infinito, di treni vuoti e scenari su cui aleggia lo spirito migrante di un fanciullo. Il coro intona la giaculatoria del peregrinare stanco di un padre che stende la mano per cercare quello che non c’è, come in Waiting For You in cui Nick ricalca i passi del sentiero tracciato con le ballate del disincanto di “The Boatman’s Call”. Difficile restare emotivamente inerti dinanzi alla potenza dei versi di Sun Forest che descrivono un nugolo di bambini che si arrampica verso il sole: «Come on everyone, come on everyone / A spiral of children climbs up to the sun, to the sun, to the sun / And on each golden rung, a spiral of children climbs up to the sun». La presenza di Warren Ellis si avverte soprattutto nei glitch di Night Raid con i suoi rintocchi sordi di campana e nel violino obliquo di Galleon Ship che richiamano le desolazioni di una terra avvinta nell’abbraccio mortale della desertificazione. La prima parte dell’album si chiude con Leviathan, vicina al respiro world di “Us” di Peter Gabriel mentre la seconda parte è inaugurata dagli oltre dodici minuti di Ghosteen, mini sinfonia per sintetizzatori archi e voce, in una mistura dove si incontrano le cupezze southern dei 16 Horsepower di David Eugene Edwards e la magniloquenza degli Spiritualized. Il secondo versante dell’album sembra disinnescato da una sorta di inanimata drammaticità, come se una sottesa rabbia avesse preso il sopravvento in un moto di autoesorcismo e superamento. Adesso ci si libera da quegli stessi spiriti che prima si sono evocati. Dopo lo speech poetry di Fireflies, l’epilogo è  consegnato a Hollywood: lunga traccia di rielaborazione complessiva del trauma che vive dello stesso respiro di Push The Sky Away. “Ghosteen” è il disco di un cammino nel deserto, dell’abbandono e del dialogo con un demone che, anziché indicare la via della dannazione, ci insegna a sopravvivere.

Voto: 8/10
Giuseppe Rapisarda

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