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27 Giugno 2016 ,

Bob Dylan FALLEN ANGELS

2016 - Columbia
[Uscita: 20/05/2016]

Stati Uniti    #consigliatodadistorsioni     

 

dylan-bob-fallen-angels-cover-052016Bob Dylan ci accoglie con una canzone del 1940 e la vociaccia di quella rana col raffreddore che tanto abbiamo amato e con altrettanta energia osteggiato in qualche suo concerto. Il suo nuovo album si lascia precedere da una piccola meraviglia che da sola direbbe tutto: è il primo "singolo" (chiamiamolo così, ma in realtà si tratta del primo pezzo affidato alle potentissime leve del web). Ed è sempre la stessa ricchezza, la consueta ricchezza che arriva da sempre da quelle parti, come negarlo. Con alcune sue canzoni ci ha spronati quando ce n'era bisogno (The times they are a-changin'), ci ha aiutati a risolvere dei dubbi (It ain't me, babe), ci ha rincuorati in tempi di altre sofferenze (Is your love in vain?). Ci ha dato qualche prospettiva, il Robert da Duluth, altre ne ha negate, perché amando davvero qualcosa poi si diventa fatalmente diffidenti verso ogni suo opposto. Ma c'è stato sempre, Bob Dylan. Adesso Bob Dylan -quello che oggi, come qualcuno scrive con un certo disprezzo, "fa le cover"- prende un semino raccolto dalla storia della musica popolare del suo paese e lo pianta nel nostro incerto presente.

 

Ci avviamo così all'ascolto di "Fallen Angels", un titolo (ispirato da un film del 1945 con Dana Andrews, Alice Faye e Linda Darnell) che nasconde dei sottotitoli bellissimi, uno su tutti Young at heart, la traccia di apertura che subito avverte: "siamo giovani nel cuore". Polka Dots and Moonbeams, che Jimmy Van Heusen e Johnny Burke scrissero Fallen_Angel_1945_postersettantasei anni fa, era servita a Francone Sinatra per confezionare il suo primo hit. Il Boss del New Jersey (già Boss, lui, prima che di Boss, da quelle parti, ne arrivasse un altro) era accompagnato dall'orchestra di Tommy Dorsey in un viaggio d'altri tempi, che riascoltato oggi è la colonna sonora perfetta per cento film in bianco e nero con le facce di Cary Grant, Gregory Peck e Ingrid Bergman. Arrangiamenti d'archi irripetibili nella musica d'oggi, trombe mutate, impennate ritmiche da reggersi forte. Era jazz orchestrale datato 1965, quello proposto da Sinatra e preceduto da una intro parlata in cui l'uomo che tutto aveva avuto e tutto si era preso, il re dei casinò e di tutte le sale da ballo, quasi implorava i dj radiofonici di concedergli almeno lo stesso tempo che riservavano ai Beatles, nuovi arrivati.

 

Tutto accadeva mentre Bob Dylan era alle prese col folk elettrificato di "Bringing it all back home" e stava piano piano modificando irreversibilmente lo scenario in cui agiva Sinatra. Nel 1965 Sinatra era il conservatore, Dylan il reazionario. Chi l'avrebbe detto che cinquant'anni dopo quest'ultimo si sarebbe messo a lucidare e conservare così bene i dylanricordi più preziosi della carriera dell'altro. Su Polka Dots and Moonbeams, fuoriserie lanciata oggi dal passato dal più improbabile dei crooner, ci hanno fatto un giro in molti. Si ricordano arrangiamenti di Gil Evans e interpretazioni memorabili di Sarah Vaughn, Wes Montgomery e altri. Anche John Denver le si è avvicinato negli anni Settanta mettendo in campo la sua voce bellissima, un tempo swing lievemente trattenuto e delle moderate chitarre country. Proprio a quella sobrietà sembra oggi ispirarsi Dylan, che ci appare la stella un po' caduta di un bar di periferia anzichè il divo di una dykan2ballroom del dopoguerra. Fa quello che avrebbe fatto Willie Nelson con questa canzone: stende su un texan swing rallentato un po' della lucentezza che la pedal steel solitamente offre alla musica e canta come può, senza strafare perché non potrebbe ma piazzando sul tavolo quel punto che le mani del giocatore raffigurato sulla copertina dell'album stavano trattenendo a fatica. La "sua" visione del Sinatra 1965 possiede una grazia e una strafottenza che inteneriscono. E' riverente come lo era stato tutto l'album "Shadows of the night" e nega tutte le certezze di chi fa musica oggi. Sembra di vederlo lì, Bob Dylan, accovacciato in un angolo col suo cappellone da cowboy, a 720x405-GettyImages-109061951sorridere, sotto i suoi baffetti striminziti, del fatto di avere incominciato a cantare "in mezzo a un ballo country organizzato nel giardino, avvertii un colpo e qualcuno disse 'mi scusi'...." solo dopo due minuti dall'inizio del pezzo. Due minuti, un tempo in cui in un talent show chi sta sul palco ha già detto tutto, e avanti un altro, un'altra vocetta perfetta e furba. Certi, noi, che non ci si parerà mai davanti un Bob Dylan. 

 

Fallen Angels è un gran bel disco intorno a una canzone molto, molto rivelatrice. C'è qui tutto il Dylan che ha preso da tempo la strada del crooner, non quadratissimo ma di grande anima, e va bene così, perché lui è Dylan e possiede una tra le voci più straordinarie del panorama pop. Ancora la possiede, nonostante il tempo, qualche acciacco, l'indolenza che mostra talvolta dal vivo, quel sapere che può permettersi tutto. Nonostante tutto, è lui e come lui nessun altro. Libero dunque di correre, con bello stile,una voce abrasiva e una tranquillità che gli giova, tra il country e tutta quella musica di bob-dylan-fallen-angels-2016-retail-back-cover-226213mezzo che si trova tra Nashville e la New York degli anni Quaranta, tra il jazz e altre frontiere. In un disco che in qualche modo è equiparabile a "Stardust" di Willie Nelson, altra brillante e consigliatissima incursione nel terreno di una  musica scovata nel passato, è naturalmente impossibile non rimpiangere il songwriting puro e bello che ci ha fatto innamorare pazzi di Dylan, quello di "Tangled Up In Blue" e mille altre meraviglie, ma qui c'è un secolo di note portate da un cuore che si sente giovane, tra contrabassi e steel guitar, seguendo il codice dell'emozione e del ricordo, inseguendo le canzoni della gioventù e di tutto quel mondo pre-rock'n'roll che ha un valore enorme. Come rain or come shine l'hanno cantata tutti, da Ella Fitzgerald a Don Henley, da Frank Sinatra a Eric Clapton. Dylan se ne impossessa con classe e candore, tra una chitarra che pare di sentire Joe Pass e due spazzole che fanno il resto. Ancora tanto Sinatra (come nel bel disco precedente) perché Melancholy Casablanca13Mood e All the way arrivano dal suo repertorio. Quest'ultima l'aveva anche ripresa la Mina degli anni recenti. It had to be you, standard del 1924 già ascoltato nel film "Casablanca" è un incanto, lancia l'immaginazione molto lontano, e se ci mettete le da qualche le silhouettes di Humphrey Bogart e Ingrid Bergman l'emozione è completa.

Tutto lascia credere che Dylan non si curi più della differenza tra l'essere interprete o autore. Viaggia un po' austero nel cuore di una musica che esiste da prima di lui e questo è un grande e nobile attestato di umiltà. Se lo può permettere, ha ancora tutte le luci su di lui, non stiamo osservando il downfall di una carriera, cosa che spesso accade per altri artisti. Ci piace immaginarlo in pausa, una pausa splendida della quale dobbiamo essergli riconoscenti visti i risultati che porta. Dopo questo spettacolare calarsi nella musica di ieri potrebbe ancora sorprenderci con le sue nuove canzoni. Lo attenderemo, dovesse essere l'ultima cosa da fare. E' una riconoscenza dovuta.  

Ermanno Labianca

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