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7 Marzo 2017 ,

The Brian Jonestown Massacre DON’T GET LOST

2017 - A Recordings/Cargo Records
[Uscita: 24/02/2017]

Stati Uniti     #consigliatodadistorsioni

 

28 Ottobre 2016, 24 Febbraio 2017. 119 giorni appena separano “Third World Pyramid” da questo “Don't Get Lost”, ultima uscita dei Brian Jonestown Massacre di Anton Newcombe. Eppure il solco che divide i due dischi è più profondo di quanto si possa pensare: da una parte la solarità distorta che fu di “Strung Out In Heaven”, dall’altra un lunare mondo di macchine ed ombre. “Don't Get Lost” prende addirittura il titolo da un brano (e che brano…) del suo predecessore; ma qui abbiamo a che fare con una psycho elettronica calata nella Berlino dei Tangerine Dream e degli Ashra; oggi una Berlino di cui Newcombe può a ben diritto rivendicare una parte, magari piccola, magari quella dei suoi Cobra Studio, avamposto mitteleuropeo in grado di lavorare sull’ormai vecchia neopsichedelia californiana, innestandola sulle basi elettroniche che vanno da “Station To Station” al più precoce dei sussulti post-punk, rifinite con gusto e dimensione tutta artigianale.

Un artigianato con cui agguerrite, e spesso migliori, nuove leve (Wolf People, Foxygen, Meatbodies, Thee Oh Sees...) devono comunque sempre fare i conti. Uno stile, per quanto disparato ed incostante, in cui si riconoscono le componenti di sempre: uno shoegaze ipnotico e circolare, sverniciato di ballate acid rock; in questo caso con un’importante aggiunta “kosmische”. Senza acuti né facili concessioni, una nicchia che è ormai mainstream per quarantenni affezionati e nostalgici della fine dei ‘90, che sa però ben confezionare un prodotto multiforme, colorato, capace di nascondere la ripetitività nell’ipnosi, il tradizionalismo nell’abile citazione.

 

Con Newcombe ci sono alcuni volti noti dell’ultimo periodo (e non solo): le chitarre di Ricky Maymi e Ryan Van Kriedt, la batteria di Dan Allaire, il respiro diafano di Tess Park: artisti che garantiscono uno spessore ed una fantasia sopra la media.
Charmed I'm Sure, UFO Paycheck e One Slow Breath sono le più ligie alla linea tecno-acida: strumentali per moog, sintetizzatori ed accordi orientali che forse anche Florian Fricke approverebbe. Fact 67 è uno sferragliamento garage come un bootleg dei primi concerti dei Jefferson al Fillmore, mentre Dropping Bombs On The Sun resta un outtake di “Nothing To Declare”, una tresca d’amore morente all’ombra di un mellotron col profilo di un cumulonembo dopo la burrasca. È invece il sax tenore di Pete Fraser (già coi Pogues) a fendere il buio di Geldenes Herz Menz, come uno spot di luce bluastra in un late-night show per assuefatti avventori di un bar dell’Interzona di Burroughs.
Disparato, notturno più del consueto. Forse tra qualche anno lo rivaluteremo come album di transizione; per ora rimane comunque un “viaggio” pregevole. 

 

Voto: 7,5/10
Giovanni Capponcelli

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