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9 Marzo 2020 ,

Jonathan Wilson Dixie Blur

2020 - BMG Records
[Uscita: 06/03/2020]

Ci siamo chiesti spesso quanto avrebbe pagato Jonathan Wilson per aver vissuto negli anni Sessanta, catturando in pieno lo spirito del Laurel Canyon californiano. Magari nei suo sogni avrebbe voluto essere uno dei quattro CSN &Y, il canadese Neil Young in primis oppure Gene Clark dei Byrds. E’ venuto al mondo a metà degli anni settanta, quando quella scena era già evaporata ma da quando è entrato nell’ambiente musicale si è spesso parlato di colui che poteva resuscitare quell’universo magico, quelle jam improvvisate, sorta di meeting di musicisti liberi di creare, di scambiarsi idee e progetti comuni. Il Jonathan Wilson più vicino a quello spirito ha avuto il suo apice musicale nel secondo e terzo album “Gentle Spirit” (2011) e “Fanfare” (2013), che al netto di qualche scopiazzatura al limite del plagio, avevano dalla loro una serie di composizioni da fare invidia alle migliori produzioni dei sixties/seventies. Il suo disco d’esordio assoluto è invece l’interessante “Frankie Ray” del lontano 2005 che molti sembrano aver dimenticato e cancellato dalla sua discografia, forse perché poco distribuito, adesso si trova in rete a prezzi folli. Dopo quei due album così belli è seguita una pausa che però ha segnato una svolta artistica per il nativo della North Carolina, in positivo e in negativo. La chiamata alle armi del 'Floyd' Roger Waters è stato un vero attestato di stima da parte di un musicista così noto e importante ed essere una delle due chitarre soliste del mastodontico "Us & Them " Tour del 2017-18 è stato molto più che gratificante. Il risvolto della medaglia sono state le ripercussioni sulla sua produzione solistica che ha ripreso il suo corso col deludente “Rare Birds” di due anni fa, che nei suo interminabili 80 minuti lo vedeva molto lontano da quelle belle sonorità di soli cinque anni prima, intrappolato in sperimentazioni elettroniche e ritmi dance di dubbio gusto. Lo stesso cattivo gusto che adesso ritroviamo nel disegno di copertina di questo “Dixie Blur” che ha fatto subire presagire il peggio, un po' come successo col disastroso ultimo album di Beck. Per realizzare il disco Jonathan ha chiesto aiuto a Steve Earle che aveva registrato il suo ultimo lavoro coadiuvato da musicisti di Nashville. Wilson ha voluto fare lo stesso e in soli sei giorni ha registrato il tutto, live in studio con sovraincisioni al minimo sindacale. La band era formata da turnisti di Nashville, Dennis Crouch al basso, Russ Pahl alla pedal steel, Jim Hoke e il violinista Mark O’Connor, tutti impeccabili musicisti. Tutto perfetto verrebbe da dire, ma non sempre se hai la squadra forte vinci il campionato, se l’ispirazione non è al top non si fanno miracoli. Terminato l’ascolto dell’album non si riesce capire a che gioco stia giocando il lungocrinito Wilson, visto che al solito pare una produzione d’altri tempi con sporadici accenni western limitati comunque a poche tracce. Una delle tracce uscite in anteprima, Korean Tea non era da disprezzare, risale addirittura agli anni '90, ma soffriva della stessa condizione della maggior parte degli episodi qui raccolti, molti spazi vocali e pochi voli chitarristici. Non troviamo traccia qui dentro delle splendide long tracks a largo respiro del passato come Desert Raven, Fanfare, Illumination o la clamorosa The Valley Of The Silver Moon, tutto azzerato o poco ci manca. E questo è un vero peccato perché chi ha assistito a qualche  concerto, col suo gruppo o nello stesso tour di Roger Waters, ha potuto ammirare la sua maestria alla sei corde, qui tenuta tristemente a freno. Scelta ponderata o desiderio di allontanare le critiche di plagio e scarsa originalità? I 14 pezzi che compongono “Dixie Blur”, per soli, per Wilson, 55 minuti, ci parlano di un album dai ritmi lenti, anche troppo rilassato, se scriviamo soporifero rischiamo di fare irritare qualcuno, che sembra finire così come era iniziato e non rimane molta voglia di rimetterlo ancora in play. E' un disco dall'anima americana, quel Dixie in copertina sembra rimandar al grande Dixie Chicken dei Little Feat e la traccia iniziale, Just For Love era pure il titolo di un disco, minore, dei Quicksilver Messenger Service. Le tracce più western style, allineate col disegno di copertina e dove l’impronta dei musicisti di Nashville è più marcata, hanno nome So Alive, In Heaven Making Love e El Camino Real e sono decisamente le cose peggiori ascoltate qui dentro, è un vestito musicale che proprio non si addice a uno come Wilson, diciamo che ha voluto sfruttare la squadra che aveva ma ha portato a casa una improvvisa sconfitta. D’accordo voler cambiare pelle, ma a questo punto meglio la stagnazione anche se poi quello che si sente in queste canzoni è sempre più decente degli obbrobri elettronici del disco precedente ma ci voleva poco. Gli episodi più lenti e rarefatti, 69 Corvette, New Home, Oh Girl, Pirate, sono canzoni talmente simili che non si riesce a capire se si sta ascoltando l'una o l'altra. Se proprio dobbiamo sforzarci di individuare qualcuno di questi innumerevoli slow qui presenti vi regaliamo quattro  titoli, la magica slide di Russ Pahl che tinteggia sia Riding The Blinds che Fun For The Masses, la calda Platform e Golden Apples con echi di Gene Clark e Elliott Murphy, tutte con un fascino e una purezza che ci rimanda alla stagione felice di Jonathan, nemmeno tanto tempo fa ad onor del vero. Episodi di grande bellezza, quattro gocce in un oceano di suono non proprio cristallino. "Dixie Blur" in una ipotetica scala di valori si pone un gradino sopra al precedente album, ma sembra azzardato parlare di rinascita di Jonathan Wilson, semmai va apprezzato il tentativo di cambiare anche se non sempre il risultato è all'altezza della situazione. Desta curiosità una eventuale resa live di un simile album anche perché dubitiamo che i tipi di Nashville lo seguiranno in tour, magari il nostro uomo ci stupirà ancora, lo aspettiamo fiduciosi perché, al di là di qualche falla ed episodio sottotono  non è un altro musicista perduto.

Voto: 6.5/10
Ricardo Martillos

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