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20 Marzo 2012 , ,

Lee Ranaldo BETWEEN THE TIMES AND THE TIDES

2012 - Matador
[Uscita: 20/03/2012]

E così, a qualche mese dall’annunciato scioglimento dei Sonic Youth, dopo più di trent’anni di storia tra punk, sperimentalismi e indie-pop, mentre gli ex-coniugi Moore si concedono una pausa di riflessione che li ha visti separarsi anche dal tetto coniugale, i restanti 2/4 della band, ne approfittano per proseguire nei loro progetti individuali. Steve Shelley (oltre a partecipare all’album in questione) a garantire il suo apporto  all’eccellente lavoro dei Disappears uscito da poco, mentre Lee Ranaldo alla pubblicazione del suo nono album solista. Se Thurston Moore, lo scorso anno aveva spiazzato tutti con il suo “Demolished Thoughts”, un album più che convincente e che ben poco ricordava delle sonorità della “gioventù”, lo stesso non si può dire per quest’ultimo lavoro di Lee Ranaldo, in cui il rimando è inequivocabile. Questo lo si può interpretare in due modi: o il chitarrista fatica a evolversi in una propria identità giocandosi in prima persona o semplicemente aggiunge peso all’importanza che ha sempre avuto il suo contributo all’interno del gruppo storico. Sebbene i Sonic Youth siano sempre stati una band ‘di fatto’, nel senso che non ci sono mai state personalità a prevaricare su altre e le composizioni han sempre riportato la firma a nome Sonic Youth, è anche vero che a livello di immagine la coppia Gordon/Moore ha sempre avuto più risalto, anche solo per il fatto di essersi sempre alternati al canto in maniera quasi esclusiva, adombrando un po’ il nostro, nel ruolo di ‘George Harrison’ della situazione, o meglio, di comprimario in sala macchine. Rimangono comunque capisaldi della discografia, brani come Eric’s Trip, Rain King (da “Daydream Nation”) Mote (da “Goo”) Wish Fullfillment (da “Dirty”) cantati proprio da Ranaldo.

 

Questo “Between the times and the tides“ ci guida in leggerezza, sembra spiccare il volo come una colomba scampata alle rovine, allontanandosi in parte sia dalle claustrofobie urbane, gli scenari di apocalissi metropolitane, che dai suoi stessi lavori precedenti in cui alternava rivisitazioni di classici (Bob Dylan, John Lennon) a sperimentalismi noise. Un’anima pop ammanta un po’ tutto l’album di questo ultra cinquantenne che sembra aver ritrovato la spensieratezza di una seconda giovinezza, non solo sonica. Linee melodiche ammalianti, dissonanze morbide e abilmente arrangiate, sonorità piene ma levigate che giovano della complicità di ospiti quali Jim O’Rourke, Alan Licht, John Medeski e Nels Cline dei Wilco. Waiting on a dream, il brano che apre l’album, ci trae in inganno, accennando a quella che potrebbe presentarsi come una Paint It Black del terzo millennio, mentre nel singolo estratto Off the wall - che vede Bob Bert alle percussioni - Lee gioca come un adolescente a sbeffeggiare Joe Jackson, preferendo alla raffinatezza del songwriting, un’immediatezza indie-pop.

 

Hammer blows e Stranded due ballads in versione acustica, escono dai binari della consuetudine proponendosi in una chiave folk-pop per uno dei momenti più sorprendenti, così come è Fire Island (Phases) ad alzare lo sguardo in cerca di nuova luce. Poco ne possono invece l’altra metà abbondante delle canzoni come Xtina as I Knew her che risentono del peso dell’eredità, diluendo la ricetta in una funzione più  easy, e riuscendo addirittura, in certi casi, a far riaffiorare alla mente le cose meno felici dei REM (Shouts, Angles, Lost (Plane T nice), Tomorrow never comes). Il mestiere c’è - e come potrebbe essere altrimenti - ma la sensazione è che in alcuni momenti l’ispirazione non sia agli stessi livelli. Un album che convince solo a tratti, ma che comunque vince per il fatto di non aver bisogno di convincere nessuno. Autentico e sincero Lee Ranaldo, prendere o lasciare.

 

Federico Porta

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