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27 Febbraio 2019 ,

Ryan Bingham AMERICAN LOVE SONG

2019 - Axster Bingham Records
[Uscita: 15/02/2019]

Stati Uniti    

 

713YcTscieL._SS500_T-Bone Burnette logora chi non ce l'ha. Tocca ora a Ryan Bingham, ragazzo prodigio del new country 2.0 (un paio di gradini più in basso, diciamolo, rispetto al new country degli anni Ottanta, quello che produsse Earle, Lovett e Yoakam, per dire solo di alcuni), leccarsi le ferite dopo la separazione dal prodigioso produttore, ex Alpha Band e Rolling Thunder Revue. Bingham lo ebbe a corte per "Junky Star" del 2010, l'ultimo dei tre colpi ben assestati d'inizio carriera, e da allora ha imboccato una lenta china. Aveva aperto con gli ottimi "Mescalito" (2007) e "Roadhouse Sun" il ragazzo del New Mexico, allora protetto dall'ex Black Crowes Marc Ford, poi la fase Burnette ne aveva accentuato l'anima rock convincendo un po' tutti, tanto i puristi del country quanto quelli che al country ci erano arrivati via Rolling Stones. Burnette, non va dimenticato, era colui che si era coccolato Bingham nella colonna sonora di "Crazy Heart", dove il frutto del lavoro a due era stata The weary kind, canzone che aveva fruttato ai due un Golden Globe come "migliore canzone originale" nella 67ma edizione del premio.

 

Giunto al sesto disco in studio in dodici anni (il quarto e il quinto hanno lasciato deboli tracce), il songwriter pesca nel suo repertorio di ballate acustiche da moderno Woody Guthrie (Beautiful and kind), offre guizzi promettenti perché dal passo scorrevole (Pontiac, nulla a che vedere con Lovett, e What would I've become) e si avventura ancora sul ryanterreno dei tempi medi che fanno pensare a Jagger e Richards quando giocavano a fare i Flying Burrito Brothers. Lo fa con un buon gusto, senza perdersi quasi mai ma lasciando la sensazione di incompiuta perchè tra country-blues un po' risaputi (Got damn blues che sfiora tutti i clichè del genere) e pezzi un po' ipnotici che non trovano una direzione mai (Blue, nei suoi sei minuti male impiegati, e Hot house, bolso gospel blues di rara monotonia) si incontra più la noia che l'eccitazione. Chiunque altro se la sarebbe cavata con questo dischetto di media portata, non Bingham, che ha divorato i primi tre anni di carriera emersa (non vanno perciò contati i dischi autoprodotti dei primissimi Duemila) col passo del predestinato. Lui porta a casa con "American Love Song" un sette stiracchiato, che poco non è ma che visto dall'alto dice di un artista in fase stazionaria, se non involuta. 

 

Voto: 7/10
Ermanno Labianca

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