Tinariwen Amadjar

Continua il viaggio di Ibrahim Ag Alhabib e i suoi Tinariwen, con “Amadjar”, ottavo album prodotto in studio dalla formazione maliana. Litanie salmodianti (rigorosamente in lingua tamashek), ipnotici riff desertici e percussioni tribali sono ancora il piatto principale del gruppo; di contorno le ospitate di artisti occidentali, che non potevano mancare, vedono gravitare nell’orbita dei Tinariwen il barbuto Warren Ellis, Stephen O’Malley, Micah Nelson, Cass McCombs e altri musicisti più o meno famosi. Alla tensione blues si accoda il sentimento spirituale che si evince dalle preghiere di Taqkal Tarha (con Micah Nelson al mandolino), Madjam Mahilkamen e Mhadjar Yassouf Idjan, circoli acustici di coralità e comunitarismo musicale; nubi di elettricità si spargono sui tappeti di Iklam Dgour, grazie a Ellis e al francese Rodolphe Burger. Spesso le canzoni si interrompono, lasciando spazio a canti solitari o a dialoghi tra musicisti: si respira un’aria libera. Di rado la dimensione acustica lascia spazio ad una strumentazione più ampia, ma quando questo succede (la stupenda Kel Tinawen o Takount, con il contributo di Noura Mint Seymali) i risultati sono trascinanti. I Tinariwen denunciano coi loro testi la situazione politica e sociale precaria del popolo celeste, esprimendo l’impegno che i membri della band hanno sempre profuso (anche attivamente). Il titolo rimanda alla difficile condizione dei popoli berberi, essendo la traduzione “viaggiatore straniero”, ma suggerisce anche una condizione più universale, umana in senso assoluto, di triste attualità in questi tempi: il concetto di migrazione, di instabilità, di emarginazione a cui opporre (come si legge nelle traduzioni inglesi dei testi) l’invito a una visione inclusiva, comunitaria, dialettica. Le canzoni di “Amadjar”, si sarà capito ormai, non si discostano molto dalla consueta formula introiettata dai Tinariwen ma ci confermano l’ottimo stato di salute della band.