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27 Agosto 2014

Under the skin Jonathan Glazer

2013 - UK/USA/Svizzera - Cast: Scarlett Johansson, Jeremy McWilliams, Lynsey Taylor Mackay - Durata:108 min.

Jonathan Glazer è un regista che, assieme a pochi altri (Spike Jonze, Harmony Korine, Michel Gondry, David Fincher) ha rivoluzionato il mondo del videoclip. C’è la sua firma dietro alle immagini che accompagnano canzoni come Karma Police dei Radiohead, Virtual Insanity dei Jamiroquai, Karmacoma dei Massive Attack, Treat me like your mother dei Dead Weather o Rabbit in your headlight degli UNKLE (quest’ultimo un piccolo gioiello, con protagonista Denis Lavant, attore feticcio di Leos Carax). Le sue esperienze cinematografiche, invece (e a differenza di molti suoi colleghi) sono state centellinate nel corso degli ultimi tre lustri (Sexy Beast nel 2000 e Birth-Io sono Sean nel 2004). Under the skin, vicenda dell’aliena che in giro su un furgone per le strade della Scozia va alla ricerca di vittime (maschili) da divorare, arriva nel 2013, terzo film a più di dieci anni dall’ultima pellicola; ma con quest’ultima fatica il regista inglese firma una delle pellicole migliori dell’anno.  

 

Under the skin è prima di tutto un’esperienza sensoriale, tattile e luminosa, di luce e fotografia. Fin dalla sequenza d’apertura, glacialmente kubrickiana (ma che forse ha a che vedere di più con certe astrazioni di Tarkovsky, pur conservando quel geometrico rigore, marchio di fabbrica del man in the high castle) il film sviluppa tutto il suo potenziale immaginifico. Esperienza sensoriale, s’è detto, di luce e di acqua, d’uno strano liquidoscarlett amniotico dentro il quale le forme fluttuano, silenziose, o tutt’alpiù accompagnate da un continuo rumore bianco. È la stessa stasi su cui poggia la sceneggiatura: la vicenda dell’aliena mangiauomini, un po’ Diana (Visitors), un po’ mantide religiosa, esplode all’improvviso ma d’un rumore secco; non dà spiegazioni ma non si aspetta neanche delle domande, perché tutto accade, cristallino davanti ai nostri occhi e quel che rimane è il resoconto visivo d’una esperienza per lo più tattile – under the skin, appunto – che in tal modo viene percepita anche dallo spettatore. Il film penetra sotto la pelle non solo dei personaggi (e degli spettatori) ma anche degli ambienti: l’uso di microcamere nascoste lascia che la costruzione (e l’uso) del set si perda in un continuum di realtà che è parte integrante della sceneggiatura (una Scozia fredda, notturna per lo più): i personaggi s’immergono in spazi inconsapevolmente cinematografici (e, forse per questo, incredibilmente cinematografici).

 

La stessa Scarlett Johansson che rinuncia brillantemente al suo divismo, al suo biondo sex-appeal, al glamour che la sua stessa presenza si trascina dietro, per sostituirlo con una bruna e animalesca carica sessuale (ma fredda, scientifica quasi), reinventa il proprio corpo d’attrice in maniera inedita, perfetta per il ruolo, e si sposa benissimo con l’ambente, che è il vero protagonista del film. La regia e la fotografia dipingono infatti spazi che però non diventano mai oggetto di documentario, rimanendo sempre un gradino più in alto dell’immagine brutale: ogni immagine è caricata d’un lirismo astratto, d’una luce che smorza il calore con innaturale naturalezza. Il film, però, dà il meglio di sé quando si svincola totalmente dal reale e porta lo spettatore – come la vittima dell’aliena – in un mondo parallelo, che è astrazione pura, che si spoglia gradualmente dei suoi abiti esteriori per diventare colore puro, un nero assoluto al di là dello spazio/tempo, uno spazio/plasma di liquidità magmatica; una sorta di Zona tarkovskiana (Stalker) riprodotta dentro una stanza. Privata di qualsiasi forma, questo mondo ritrova il suo stato primordiale: l’abisso e l’infinito.

 

L’immagine è straordinariamente sofisticata (il lavoro di Daniel Landin, il direttore della fotografia, è magistrale), il digitale cristallino ci porta verso il climax finale: la rivelazione dell’alieno e della pelle avvengono in un ambiente aperto – un bosco – ma allo stesso tempo claustrofobico, opprimente, schiacciato dalla luce del crepuscolo e da sinistri bagliori di fiamma. È questa forse la parte più sperimentale d’un film che è in realtà un continuo esperimento sull’immagine: il viaggio dei sensi arriva al suo culmine, il film è entrato davvero sotto la pelle.

Luca Verrelli

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