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5 Marzo 2014

Una notte agli Oscar


Il rapporto tra cinema e Oscar merita qualche riga di riflessione, prima di iniziare a parlare di film. Una riflessione che riguarda lo stato dell’arte e dell’industria cinematografica statunitense, i suoi meccanismi e funzionamenti, le sue strategie commerciali. Nota giustamente Richard Brody che gli Oscar non riflettono (aggiungiamo noi, perché non possono farlo) né lo stato dell’arte (del cinema) né lo stato dell’industria cinematografica. La loro presenza/importanza è tutta invece da riferirsi allo stato dell’apparenza, dell’immagine condivisa (spesso, ma non sempre) e dell’immagine imposta che l’industria ama dare di sé. Nota Brody infatti che l’unica cosa riflessa dagli Oscar sia "il modo in cui i notabili di Hollywood vogliono che l’industria del cinema sia vista", che è una differenza di non poco conto rispetto a riflettere lo stato dell’industria in sé. Il discorso sull’industria cinematografica ci farebbe svicolare, ma un dato salta subito agli occhi; sì, perché le percentuali indicate dal critico americano fanno riflettere: "I votanti dell’Academy sono al 94% bianchi e al 77% maschi. Gli afro-americani non arrivano al 2% e i latini sono anche al di sotto di quel 2%. L’età media dei votanti poi è di 62 anni".

 

È facile dunque intuire quale tipo di industria sia rappresentata dai premi che l’Academy, è d’obbligo ricordarlo, assegna sostanzialmente a se stessa. Si, perché questo sfugge molto spesso a noi europei, che non di rado consideriamo l’assegnazione degli Oscar come una sorta di concorso, o ancor peggio come un festival cinematografico, in cui i premi hanno un senso o sono motivati da questioni estetico/critiche (non c’è una giuria,selfie3f-1-web che vede, tutti insieme, i film e decreta quale sia il migliore tra quelli presentati in concorso). Nulla di tutto questo. Volendo trovare un paragone più azzeccato gli Academy Awards assomigliano molto di più ad una gigante e glamour convention aziendale dove votanti e votati, premianti e premiati coincidono, e in cui chi è al momento è più forte (economicamente) vince e detta le regole (che sono innanzitutto regole di mercato), e distribuisce i premi come fossero una sorta di strenna natalizia che gratifichi i dipendenti di un’azienda. È per questo, dunque, che un discorso estetico, riguardante la (grande) bellezza di un film esula sempre un poco quando si parla di premi Oscar. E non vale neanche tanto la pena di fare il solito discorso su chi viene premiato e chi resta fuori (quest’anno Scorsese, col quasi-capolavoro "The Wolf of Wall Street" con DiCaprio nel suo ruolo di una vita: entrambi ormai ci saranno abituati).

 

GLI OSCAR 2014

 

Ma vediamo in dettaglio come alcuni riconoscimenti sono stati distribuiti quest’anno. Incetta di premi tecnici per "Gravity" di Alfonso Cuarón, compreso miglior regia. Il fatto non gravitystupisce, perché Cuarón con il suo film ha riscritto gli ultimi quarant'anni di fantascienza, e se pur non è arrivato al capolavoro (colpa di una troppo grande indulgenza nei confronti di una sceneggiatura ammiccante) ha sicuramente firmato uno dei film sci-fi di questa generazione (però davvero è un peccato: questo film, con un pizzico di radicalità in più, sarebbe potuto diventare il nostro "2001"). I premi agli attori, tutti strameritati, hanno confermato però il cliché che vede riconosciuto e apprezzato il lavoro sul corpo attoriale, la metamorfosi, il cambiamento, l’imbruttimento della star che (e non c’è nulla di più conformista) per essere apprezzata deve smettere di essere un semidio in terra, radioso e perfetto, ma anzi imbruttirsi e abbrutirsi (e sempre in senso drammatico: dove è finita la metamorfosi cangiante e grottesca del comico?): come se dovesse dimostrare di essere bravo nonostante il suo status di celebrity, di icona glamour e perfetta. Stranezze dello star-system; iniziò Nicole Kidman, qualche anno fa, e da allora la cosa continua.

 

 LA GRANDE BELLEZZA

 

Il riconoscimento a "La Grande Bellezza" come miglior film straniero era un premio annunciato. Gli americani hanno adorato il film di Paolo Sorrentino da subito, e il film è costruito per essere amato da quel tipo di pubblico. La questione del successo de "La Grande Bellezza" negli Stati Uniti va al di là del valore del film, ma rientra nel modo che gli americani hanno di guardare il cinema italiano (ed europeo in generale). Il film è piaciuto in America per una serie di motivi. Innanzitutto perché è un film "riconoscibile", che rispetta i canoni del cinema americano, è sontuoso, magniloquente, con grandi (se non grandiosi) movimenti di macchina. Poi, è un film che rientra nello stereotipo americano del cinema europeo, "poetico" nella visione che un cinefilo medio americano ha della cosiddetta "poesia" del cinema europeo, stereotipi che appunto un europeo riconosce come tali, ma oltreoceano hanno ancora il loro effetto sul pubblico (vedi il successo di "The Artist”). Infine, pur rappresentandone la decadenza, il film fotografa l'Italia rispecchiando quella bellezza da cartolina che oltreoceano amano; si ricollega inoltre a quel grande cinema (Fellini), che secondo gli americani è l'unico cinema mai prodotto nel nostro paese (e se ci fate caso tutti i film italiani premiati con l'Oscar negli ultimi 30 anni richiamavano quel cinema o quell'Italia, quella degli anni ‘40-‘60: "Nuovo cinema paradiso”, "Mediterraneo”, "La vita è bella” e il film di Sorrentino è percepito come un remake de "La dolce vita”)

 

Toni_Servillo_La_grande_bellezza_foto_di_Gianni_FioritoLa questione dell'effettiva penetrazione del cinema italiano negli USA è assai complessa, di fatto oltreoceano hanno una concezione del nostro cinema che non va oltre una serie di nomi. Al di là del valore effettivo del film, la questione è, per così dire, sociologica. Il fatto che il film abbia ricevuto critiche in Italia non significa che qui non lo abbiamo capito, o si rema contro un connazionale (idea assurda, se non ridicola, e poi tra l'altro le critiche peggiori il film le ha avute in Francia, in Italia moltissimi lo hanno osannato), e tutte le polemiche sorte a riguardo lasciano il tempo che trovano. Semmai si potrebbe discutere sul fatto se un film del genere possa "salvare" davvero il cinema italiano, e quale strada il cinema italiano debba prendere per risollevarsi dalla mediocrità (o, al massimo, dalla "medietà") che ormai da anni lo caratterizza (almeno quello più in "evidenza"). Ci salverà un cinema da esportazione come quello di Sorrentino, o abbiamo bisogno di un cinema che fotografi al meglio l’hic et nunc della nostra realtà (intesa, va da sé, poeticamente, non in senso neo-neo-realista o soltanto documentaristico)? Fotografare lo stato dell’arte: di questo il cinema italiano ha bisogno. Chi sarà in grado di darglielo? Il problema è complesso e mette in campo una serie di questioni non facilmente risolvibili, per uscire dall’immobilismo del nostro cinema (e un Oscar, davvero, non basta).

 

Ci piace chiudere questa riflessione con la parole di Roberto Rossellini, che intervistato nel 1966 da Lietta Tornabuoni così parlava dello stato del cinema (italiano e non solo): "Il cinema non c’è, non esiste. Il cinema è finito. Il cinema è un cadavere ormai […]. Un balletto di fantasmi, un gioco gratuito, una rappresentazione senza spettatori […]. Si vedono sempre le stesse cose, è già un miracolo quando cambiano le facce, […] è tutto uguale, fra un film e l’altro ormai non c’è più differenza che tra una marca e l’altra di saponette [...]. L’importante è quello che si racconta: la forma è secondaria, se è efficace arriva al pubblico in ogni caso [...]. Quello (il formalismo estremo ndr) non è linguaggio, è sofisticheria, è calligrafia, preziosismo, sono immagini da rivista per fotografi dilettanti che corrono ancora dietro al contrasto dei bianchi e dei neri, che sono ancora convinti che il barbaglio di luce dietro la fronda sia poetico, che il pasticcio sia barocco e che la fotografia imprecisa e sgranata sia nobile".

Luca Verrelli

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