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16 Giugno 2018

Dogman Matteo Garrone

2018 - Italia - Francia

Dal 17 Maggio 2018 nelle sale cinematografiche - Durata: 102 min - Genere: drammatico Cast: Marcello Fonte, Edoardo Pesce, Nunzia Schiano, Adamo Dionisi, Francesco Acquaroli - Sceneggiatura: Ugo Chiti, Massimo Gaudioso, Matteo Garrone - Produttore: Matteo Garrone, Jean Labadie, Jeremy Thomas, Paolo Del Brocco - Produttore esecutivo: Alessio Lazzareschi - Casa di produzione: Archimede, Rai Cinema, Le Pacte - Distribuzione: (Italia) 01 Distribution Fotografia: Nicolaj Brüe - Montaggio: Marco Spoletini - Musiche: Michele Braga Scenografia: Dimitri Capuani - Costumi: Massimo Cantini Parrini

 

 

Locandina_DogmanDopo la parentesi del “Racconto dei Racconti” Matteo Garrrone torna ad un film più intimo e ripropone in maniera prepotente le sue grandi doti di affabulatore e l'amore mai sopito per la pittura. “Dogman” è una pellicola che ha il coraggio di servirsi della narrazione senza cadere nel gioco perverso ed inutile dell'immedesimazione. Siamo attratti e soggiogati dalle immagini proposte ma il cineasta romano mantiene un'equilibrata distanza, pare voglia dirci: tutto questo, ricordatevelo, è finzione, anche se sappiamo che la storia si ispira liberamente ad un fatto di cronaca, 'il delitto del Canaro'. Il finale è già scritto ma Garrone, con un regime narrativo debole, ci prende per mano e, con interruzioni, inquadrature fisse, che ricordano la luce diafana dei quadri di Edward Hopper o le deformazioni umane della pittura di Francis Bacon (il corpo ed il volto di Simone nelle inquadrature finali ne sono un esempio) ci accompagna in un mondo dominato dall'azione; i dialoghi sono ridotti, soprattutto tra i due protagonisti, incapaci di esprimere i loro sentimenti.

 

Il cineasta sa che al di fuori dello schermo si trova tutto ciò che il film tace, ma è proprio il cinema l'arte metonimica per eccellenza: gran parte si svolge all'interno dell'inquadratura ma al regista interessa cioè che si svolge fuori, un'indicibilità di fondo che rimane ai dogmargini dello schermo e che lascia i brividi alla fine della proiezione. L'ambientazione è costruita in un quartiere alla periferia di Roma (nella realtà siamo a Castel Volturno, in provincia di Caserta) disagiato, costruzioni fatiscenti, degrado, incuria, un paesaggio che ricorda i western all'italiana con la sabbia che si incunea ovunque e le sterpaglie che spuntano dal terreno. Marcello, la figlioletta Alida e Simone danzano un walzer triste ed avvilito che li porterà alle estreme conseguenze.

 

E' una disperazione arcaica quella dei tre protagonisti, quasi pasoliniana; gli interpreti si muovono in una zona grigia che, come ricorda Primo Levi è quel territorio “dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi”. L'ultimo dogmanmarcelloprotagonista è il mare, fonte di liberazione per Marcello, territorio neutro dove l'inconsistenza liquida permette l'oblio dal reale, “la vità è altrove” recitava un grande poeta, e Marcello (nella foto) sembra prenderlo alla lettera. Solo quando la realtà si appesantisce fino al parossismo tutto si squarcia: vediamo infatti Marcello, nell'ultima immersione al mare con la figlia, che risale improvvisamente faticando a respirare, la concretezza del reale lo ha raggiunto. Si esce dalla sala con molti quesiti e poche risposte, affascinati da un cineasta che possiede la rara capacità di parlare per immagini. 

Nicola Barin

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