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3 Dicembre 2019 ,

The Chameleons Sotto Cieli Color Cenere


Introduzione

Agli albori degli anni Ottanta, nel Regno Unito, vi fu un rigoglio di atmosfere musicali nel segno del post punk che recò alla formazione di molti gruppi la cui cifra esistenzialistica si tradusse nella nascita di uno stile inconfondibile, in seguito divenuto epigonico. In particolare, attorno agli agglomerati urbani di grandi città industriali quali, Manchester, Liverpool, Sheffield, ebbe a coagularsi quel precipuo movimento musicale, ma più latamente culturale, che fu etichettato come “New Wave”. La New Wave fruttificò copiosamente, dando alla musica coeva esempi di grandi formazioni che influenzeranno decine di altre band nei decenni a venire. Nel dettaglio, e solo per fare degli esempi tangibili, citiamo talune di queste band formidabili che calcarono il proscenio britannico in quegli anni: a Manchester nacquero i prodigiosi Joy Division che, incidendo due dischi fondamentali quali “Unknown Pleasures” e “Closer” entrarono di diritto nella grande storia del rock, divenendo materia di leggenda dopo il suicidio del loro grande leader e mentore Ian Curtis, nel 1980; i temerari Fall del grande e compianto Mark E.Smith, tra le fila dei gruppi New Wave probabilmente l’espressione più intellettuale; e, naturalmente, i Chameleons di Mark Burgess, di cui accenneremo più diffusamente nel prosieguo della nostra trattazione; a Liverpool, solo per tenerci ai più in vista, sorsero: gli Echo And The Bunnymen del grande Ian McCullough, i cui primi quattro dischi sono entrati nella storia del rock; i superbi Sound del formidabile e compianto Adrian Borland, i cui primi tre album li hanno proiettati nell’olimpo del post punk mondiale; i Teardrop Explodes del folle e geniale Julian Cope, consacrati dai loro primi due strepitosi album; a Sheffield, città di cieli plumblei dove crescono fiori d’acciaio inossidabile, nacquero i Cabaret Voltaire, gli Human League, i Clock Dva dell’algido Adi Newton, che sconvolsero con le loro chitarre il monotono sottofondo al rumor bianco delle acciaierie.

Polisemia del Camaleonte: nascita di una leggenda incompresa.

Descritto a grandi linee il panorama nel quale s’innestò il fenomeno della New Wave in Inghilterra, vi è da rilevare come alcuni dei gruppi summenzionati, sia pure in senso alquanto limitato, ebbero una qual certa risonanza mediatica e di pubblico. Non fu così, o almeno non nella misura in cui l’avrebbero meritata per il loro altissimo valore, per i Chameleons. Il primo nucleo della band, si costituì nel 1981 in un piccolo centro nei pressi di Manchester, Middleton, con Mark Burgess al basso e alla voce, leader riconosciuto, Dave Fielding e Reg Smithies alle chitarre, Brian Schofield alla batteria, quasi subito sostituito alle pelli da John Lever. Dopo alcuni intensi concerti nei dintorni della città mancuniana, apprezzati da una ristretta schiera di aficionados, l’occasione per far loro spiccare il volo si presentò allorquando ebbero a incrociare gli strumenti con i già celebri U2, su un piccolo palco, al Lyceum di Sheffield. La loro performance fu impressa su un nastro che, fortunosamente, almeno stando alle cronache, finì nelle mani di John Peel, storico conduttore radiofonico di Radio One, per la BBC, nelle cui sessioni si esibivano formazioni ritenute da lui meritevoli a cui veniva anche concesso il privilegio di vedere incise le loro performances, occasione grandissima vista l’ampiezza mediatica assicurata dalla popolarità del programma. John Peel s’infatuò subito di quel suono cupo e malinconico, spinto ben oltre il limite di un certo romanticismo di matrice ossianica, con l’incrocio ammaliante tra le chitarre e la voce profonda di Burgess, a creare atmosfere sospese tra rock aggressivo e oscure pulsioni melanconiche. Divennero ospiti fissi delle scalette di John Peel, a tal punto da attirare l’attenzione di produttori del calibro di Steve Lillywhite, già guru degli U2, e della Epic che avanzò loro l’offerta di incidere un singolo. Era il 1982, vedeva la luce In Shreds, il primo singolo dei Chameleons. Fu l’inizio dell’avventura sonica, che porterà la band di Middleton a incidere tre album prodigiosi dal 1983 al 1986.

Un ponte sonoro sotto cieli color cenere.

Se “In Shreds” aveva convinto anche i più scettici riguardo al valore dei Nostri, poiché era un brano che coniugava in egual misura potenza e ruvidezza tipiche del rock più impervio, con improvvisi languori neo-romantici, chitarre e voce che si dispiegavano come mantelli di velluto bruno sui padiglioni auricolari degli ascoltatori, mancava ancora il compimento dell’opera, la prova del nove sulla lunga distanza. Ecco che la Statik Records offrì loro l’occasione di dimostrare che non erano un mero fenomeno transeunte, e li mise sotto contratto per la realizzazione del primo album, “Script Of The Bridge”. Era il 1983, e non cadremo certamente in errore se affermiamo che i Chameleons realizzarono uno dei massimi capolavori dell’intera storia della New Wave. Un album potente, ispirato, perfetta sintesi tra istanze rock e mood prettamente malinconico, accattivante all’ascolto ma mai dirupante nella banalità della leggerezza commerciale. Resterà a nostro avviso il vertice assoluto della loro produzione discografica. Perle indiscutibili dell’album risultano senza tema di dubbio: l’inaugurale Don’t Fall, ritmo incalzante, chitarre tirate a lucido, voce impostata e suadente, sezione ritmica pulsante e pregna di brillantezza; la splendida Here Today, quintessenza del British Style, evocante stagioni di plumbea colorazione, con brume ancestrali ad avvolgere le cose intorno, creando un paesaggio da fiaba gotica; Second Skin, con la prima chitarra a tessere trame d’arcobaleno presto sopraffatte da ventagli di pioggia, la voce come saliente da arcane profondità; Up The Down Escalator, nella quale l’osmosi tra voce e chitarre in pura dissolvenza raggiunge l’aurato apice; Pleasure And Pain, introdotta dal tocco pizzicato della chitarra, una ballata d’ascendenza romantica sotto un immaginario chiaro di luna e sul ciglio di abissi mentali; la meravigliosa traccia finale, View From The Hill, languida e serica come una coltre di ovatta distesa su prati color malva. Un disco superbo che fece comprendere a coloro che ne dubitavano quale grande talento possedessero i Chameleons. Benché l’album rappresentasse quanto di meglio fosse stato prodotto nell’ambito della New Wave inglese, in assoluto, le vendite del disco registrarono uno scarso interesse. Senza cedere alla delusione, i Nostri si dedicarono a rafforzare la loro immagine di gruppo di punta, effettuando lunghi tour dal vivo nel Regno Unito, mentre su di loro si creava l’alone del gruppo di culto.

Il secondo album, “What Does Anything Mean ? Basically”, uscito sempre per la Statik nel 1985, pur non attingendo le vette artistiche del precedente, può essere considerato un altro capolavoro del genere. Dall’iniziale Silence Sea And Sky, si comprende subito che il sound dei Chameleons si stava evolvendo verso soluzioni maggior rarefazione, i dettagli più curati, il ritmo più sincopato ma egualmente accattivante. Ne è, altresì, testimonianza una traccia sontuosa come Perfumed Garden, che rappresenta simbolicamente il passaggio da cadenze più aggressive a toni da mera ballata post-romantica, mantenendo tuttavia il fascino unico dell' impianto poetico-musicale. Altri brani degni di particolare menzione sono: Intrigue In Tangiers, chitarre scintillanti e voce ispirata su un tappeto sonoro dal morbido ordito; Singing Rule Britannia, dall’ustoria e caustica connotazione politica contro il tatcherismo allora imperante; Looking Inwardly che pare recuperare il ritmo incalzante del primo album; la ballata melanconica e suadente di Home Is Where The Heart Is; la conclusiva P.S. Goodbye, che nel tono profondo e meditativo della voce, su morbide coltri di tastiere, trova il giusto tono del finire. Un album, molto bello e intenso, sebbene leggermente inferiore al folgorante esordio sulla lunga distanza.

Nonostante il buon passo sostenuto dalla band, e l’alto livello artistico raggiunto coi primi due album, qualcosa cominciò, però, a incrinarsi, in ordine ai rapporti umani tra i componenti della band e alla scelta dello stile musicale da perseguire una volta per tutte, sospesi com’erano tra rock vero e proprio e dream-pop da classifica. Se il connubio tra le due istanze, aveva retto perfettamente, anzi era stata la cagione primaria del positivo riscontro della critica musicale nei loro confronti, ora cominciava a guastarsi l’equilibrio su cui si reggeva il sound della band. Infatti, il terzo album, “Strange Times”, uscito nel 1986 per la Geffen e prodotto da Dave Allen dei Gang Of Four, risentì di queste divisioni carsiche, di queste incertezze circa la strada da prendere definitivamente. V’è da dire, però, per onestà intellettuale, che si parla pur sempre e nonostante tutto di un buon disco. Il livello resta alquanto dignitoso, benché vi si intravvedano in filigrana i segni della consunzione. Tracce splendide quali Tears, stupenda ballata per voce e chitarra arpeggiata, o Soul In Isolation che pare rinverdire i momenti aurei del gruppo con una superba declinazione di chitarre, sezione ritmica pulsante e voce perfettamente modulata, o, ancora, Time, The End Of Time, che riattinge in fulgore ai migliori segmenti di “Script Of The Bridge” col suo ritmo incalzante e serrato, le chitarre in vertiginosa modulazione, basso e batteria in grande evidenza, rammentano che, per quanto sulla via del declino, i Chameleons rimangono il magnifico gruppo che tanti entusiasmi tra i fans ha giustamente suscitato. La bella traccia meditativa e scintillante di rugiade sonore di I’ll Remember chiude un album colmo di luci e ombre, ma ancora di ragguardevole livello. L’impossibilità di risolvere i nodi legati alla scelta della poetica musicale da seguire, i malumori determinati dallo scarso successo commerciale dei dischi, e, infine, la morte del loro manager storico, nonché fraterno amico dei componenti,Tony Fletcher, portarono repentinamente allo scioglimento dei Chameleons dopo soli tre album. La favola del gruppo venuto dalla provincia inglese, rapidamente impostosi all’attenzione della migliore critica musicale d’Inghilterra e d’Europa, del gruppo capace d’incarnare in un tutt’uno le istanze di gruppi come i Sound, gli Echo And The Bunnymen, dandone una versione originale e personale, era dunque finita. Troppo presto, invero.

Se la fine è là donde partiamo...

Dopo anni e anni di esperienze da solisti e di progetti paralleli, soprattutto da parte di Mark Burgess, e di recupero di materiale d’archivio reinciso in chiave acustica con ottimi esiti artistici, un ulteriore tentativo di rimettere su la band fu fatto agli inizi del XXI secolo. Clamorosamente, infatti, i Chameleons ritornarono in pista, nel 2001, incidendo il loro quarto album, “Why Call It Anything?”, per i tipi della Artful, sempre con la produzione di Dave Allen. Molta della verve creativa contraddistintiva della band pare oggettivamente e definitivamente perduta. L’album, a dire il vero, non è affatto spiacevole, con brani ancora di notevole impatto quali l’inaugurale Shades, dal buon ritmo rock oriented, chitarre in ottima evoluzione, sezione ritmica incalzante, la voce che però mostra la corda in più punti, eppure si lascia ascoltare, rilasciando la sensazione di una certa gradevolezza, o la sinuosa ballata per voce e chitarra arpeggiata di Lufthansa, o, ancora, Music In The Womb ebbra dei toni melanconici e poetici dei tempi migliori, o la lunga e delicata cavalcata sonora di Miracles And Wonders. Tuttavia i tempi d’oro dei Chameleons erano definitivamente tramontati, prova ne sia che allo spirare del loro quarto, e ultimo album, la band si sciolse definitivamente. Nel 2009, Mark Burgess esperì un progetto denominato ChameleonsVox (tuttora aperto, con una discreta presenza live) che rielaborava in chiave acustica, soprattutto, il materiale già edito nei decenni precedenti, senza Dave Fielding e dopo qualche anno anche senza John Lever. Questi ultimi due diedero vita nel 2014 al progetto The Red-Sided Garter Snakes, che si arrestò bruscamente a cagione della morte del grande Lever, batterista formidabile, nel 2017. Resterà della musica dei Chameleons la traccia indelebile, il solco sonoro scavato nel cuore di chi li amò, e in qualche caso li imitò (Interpol, Editors…), e la sensazione, per noi fastidiosa, che come qualcosa d’incompiuto sia andato perduto tra le loro note mirifiche, e che il vento della storia che consacra i migliori abbia ingiustamente spirato in direzione contraria alla loro grandezza.

 

 

 

Discografia consigliata:

Script Of The Bridge (Statik); 1983

What Does Anything Mean? Basically (Statik); 1985

Strange Times (Geffen); 1986

John Peel Sessions (Strange Fruit); 1990

 

 

 

Rocco Sapuppo

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