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18 Febbraio 2012 , ,

Crystal Stilts Leggiadria di una danza su trampoli

2012 - Slumberland Records - Sacred Bones Records

 

New York e lo psycho-garage del terzo millennio

 

La rinascita psycho-garage del nuovo millennio parte da New York, ed ha come nume tutelare quello dei Crystal Stilts. La band di Brooklyn riscopre le gioie del noise-pop dei tempi migliori e lo trasforma in qualcosa di personale, ermetico, unico. Il loro grande merito sta sicuramente nell'essere riusciti a forgiare un sound peculiare e caratteristico che ha saputo imporsi in un panorama di ripescaggi reiterati e adattamenti stilistici dal sapore già noto. I Crystal Stilts invece hanno riplasmato con il loro gusto un'ampia gamma di suoni psichedelici, post-punk e garage per intessere melodie delicate, capaci di rasentare la perfezione, ricamate da inserti di organo hammond e dalla voce tenebrosa del leader, come schizzi delicati di colore che ci riportano ad atmosfere incantate ed ipnotizzanti.  Quella che consegue a questa prefazione è una corsa sui trampoli portata avanti con lucida determinazione e con inimmaginabile disinvoltura, che parte dalla grande mela fino a toccare le coste assolate di San Francisco, e che a ritroso riesce a ripercorrere le più prospere epoche passate cogliendone il lato più brioso e disincantato. Tre tappe, le più significative, sono quelle che fotografano questa breve ma già fondamentale carriera.

 

1 * Luci nella notte: "Alight Of Night" (28 Ottobre 2008, Slumberland)

 

"Alight Of Night" è un piccolo gioiello, un "cristallo" che magari sarà riscoperto tra qualche lustro da qualche paziente ricercatore, ma che già luccica di una luce meravigliosa, come le luci della città di provenienza di questa band, New York. I Crystal Stilts sembrano suonare in una camera vuota con una sola grande finestra affacciata sulla Grande Mela. Edward Hopper li avrebbe ritratti così, loro per ricompensa gli avrebbero dedicato i primi versi del pezzo d'apertura The Dazzled‘...I sit in the window watching my days from a safe distance’. Questa finestra si apre sicuramente davanti all'ex edificio della factory di Andy Warhol, tanto che il gruppo ne prende gli umori, gli odori, il mood. Ma i Crystal Stilts hanno lo sguardo più lungo di quanto si possa pensare e riescono a scorgere anche l'altra parte della costa statunitense, buttando l'occhio fino alle terre lontane nord europee; ed è cosi che nell' omonima Crystal Stilts, i nostri suonano come dei Velvet Underground - ma piu beach - o dei Jesus and Mary Chain, ma più garage.  La voce tenebrosa e catatonica del cantante Brad Hargett apparecchia la messa successiva Graveyard orbit mentre un organetto delizioso lancia la preghiera in orbita fino a toccare il Signore. Dove c'è una funzione sacra, non puo mancare lo spettro del sacerdote Morrison, non a caso la seguente Prismatic Room, col suo organetto ipnotico e le chitarre flebilmente vintage, conserva il sapore psichedelico dei giorni doorsiani andati.

 

Del co-fondatore e cantante già abbiamo detto, ma il progetto Crystal Stilts è anche creatura del chitarrista JB Townsend e si completa con Andy Adler al basso, Kyle Forrester agli organi e Miss Frankie Rose, novella Moe Tucker (ecco ancora i Velvet Underground) alla batteria, ed è proprio il suo drumming secco, lineare ed essenziale a dominare le due tracce successive: SinKing e Departure, trascinanti e stordenti come solo i migliori pezzi dei Jesus and Mary Chain sapevan essere. Shattered  Shine torna ad esser psichedelia pura; un ritornello che ricorda i riverberi dei 13th Floor Elevators, scandito dai tamburelli magici presi a prestito da chissà quale band folk degli anni sessanta e la voce sepolcrale che esce dalla finestra e arriva fino al cuore della città: ‘...twisting it's secret course all through the city's heart’. L'album prosegue fumoso, sensuale, ammiccante, sempre intenso emotivamente dietro la maschera volutamente monotona. Conclude l'album Spiral Transit, la Summer of love dei Jefferson Airplane cantata con la voce di un Ian Curtis, e The City in The Sea, vero e proprio manifesto programmatico della band, che sembra riportare una New York onirica sulle rive californiane, dove le sue luci intense offuscano ogni stella e si dilatano sul mare.

 

2 * La luna nell’oblio: “In Love with oblivion” (12 Aprile 2011, Slumberland)

 

In un periodo di stallo del rock e mancanza di nuove idee, New York torna a far riecheggiare, attraverso un nugolo di band abbigliate con pants infilati in stivali da pompiere, t-shirt alla marinara e occhiali neri fasciati, lo spirito sovversivo ed unitario del mitico CBGB's, in cui proliferavano e trovavano spazio le voci dell’underground, in cui troneggiava il santino dei Velvet Underground o la variopinta pop art  di Warhol come manifesto guida, come intoccabile fonte di riferimento. Un vero e proprio revival, più o meno ispirato, fatto di sonorità contaminate o ‘liberamente tratte’ dai più svariati generi, che se da una parte consola i più nostalgici al culto, dall’altro alimenta la sensazione di un decesso avvenuto da tempo e dal quale difficilmente si potrà risorgere. Tra i migliori ‘riesumatori di cadaveri', si sono imposti all'attenzione i Crystal Stilts. In realtà nel loro caso parlare di semplice ripescaggio appare veramente riduttivo. Sarebbe forse meglio attribuirgli la dote innata di creare un suono ipnotico, trascinante, delicatissimo e intimista facendo ricorso ad un uso sapiente quanto istintivo e viscerale di dosaggi sempre perfettamente equilibrati e di alchimie prodigiose nelle loro ricette. Con il loro secondo lavoro sulla lunga distanza,“In Love With Oblivion”, continuano a tessere questa magica atmosfera incantata e rarefatta, se vogliamo con minori asperità e maggiore spessore del pur altrettanto bello “Alight Of Night”.  

 

Capaci di buttare nel calderone dal garage alla psichedelia psicotica, richiami surf, abrasioni lo-fi, noise pop e dark wave, senza lasciarsi invischiare nella solita zuppa, o nel solito pappone, pesante e indigesto del già visto e del già sentito. Dall’invocazione di Lucifer Sam della meravigliosa Sycamore tree, ai Feelies in sottovuoto di Shake the Shackles. Dalla giostrina carillon di Precarious Stair,  spruzzata di romanticismo, alla Run Run Run di velvettiana memoria della conclusiva Prometheus at Large, ci si immerge in un’evocazione di spiriti affini, si ritrova l’orgoglio del passato ma senza alzare vessilli. La verità è che possiedono il segreto di preparazione della pozione magica i Crystal Stilts, stanno portando avanti un loro progetto di incontestabile crescita, sono bravi e sanno  conquistare. In questa seconda prova il loro umore settembrino e un po’ cupo dilaga verso sfumature di ariosa leggerezza, si aggiungono testi immaginifici e surreali che ben si sposano col rumore bianco del gruppo, impreziosito in misura maggiore dalle tastiere e dall’organo dell’ottimo Kyle Forester, che fornisce un tappeto di velluto al paesaggio sonoro sognante che si dipana. Le melodie perdono in parte i toni d’ombra rispetto al passato per snodarsi in acquerellate lievi di colore che mescolano in completa armonia i toni caldi e quelli freddi.

 

La fuzzante, iper-catchy Through the floor, la spensieratezza ye-ye di Silver sun o la fresca e super ballabile Half a Moon con i suoi coretti contagiosi e spumeggianti ne sono la più lampante testimonianza. La loro parte più umbratile e spettrale fa capolino nell’abulica ballata romantica Flying in to the sun, giocata sulla dicotomia tra voce svogliata di Hargett e chitarre sfavillanti, e nella fosca e ovattata Alien Rivers, lenta, ipnotica, evocativa. Si tratta tuttavia di sprazzi che si snodano in un libero fluire. Di un percorso incantato che sa porre il proprio sguardo in vari oblò, che sa cogliere diverse angolazioni e prospettive ma non cade mai nell’indugio inquietante e morboso. I Crystal Stilts si sono guadagnati un posto sulla luna, un mondo oltre (bellissima la space cover) fatto di stelle monocromatiche e palle di cristallo. Da lassù, la Invisible City che si rivela ai loro occhi è quella che conserva intatto il prodigio del CBGB’s, i colori acidi della Factory, quella che ci ha regalato personalità e suoni eletti.

 

3 Porte aperte su nuove percezioni: "Radiant door” (EP,  15 novembre 2011, Sacred Bones Records)

 

Dove ci portano i Crystal Stilts giunti alla soglia del fatidico terzo album, da sempre grande prova del nove per tutte le band musicali? Ad un EP: “Radiant Door”. Nella loro breve ma prolifica carriera, questo lavoro, composto da cinque brani, segue a solo pochi mesi di distanza il loro secondo ottimo lavoro “In Love With Oblivion” e segna in qualche modo una piccola svolta musicale, inevitabile passo per ogni band che non vuole rischiare di arenarsi in un cliché.  Appare subito evidente all'ascolto un sound più organico e compatto, in virtù di una più affinata tecnica stilistica e soprattutto di un maggior affiatamento tra il gruppo, una ritrovata coesione alchemica che riveste di nuove raffinatezze e nuove vibrazioni il loro progetto. Dopo la dipartita nel 2009 della batterista tribale Frankie Rose, si è aggiunto al suo posto Keegan Cooke. Il suo approccio più marcatamente jazz allo strumento, ha messo senz'altro in luce soluzioni più singolari e imprevedibili, chiavi di letture sicuramente diverse rispetto a quelle del passato. Ne è la prova più emblematica e palese l’iniziale Dark Eyes, la ‘porta raggiante’ dell’album, sorretta da gioiosi e bizzarri handclapping cadenzati e ricamata dall’organo di Kyle Forester che sovrasta tutti gli altri strumenti. Un vibrante muro sonoro di spectoriana memoria, un riflettersi inatteso negli ‘occhi scuri’ delle Ronettes.

 

La band tuttavia non tralascia i suoi stilemi più cupi e foschi, ritrova i toni crepuscolari e rarefatti tipicamente dark nella title track, dominata dai tocchi languidi e a tratti acuti e guizzanti della chitarra di JB Townsend, attinti da sonorità molto Josef K. Sferragliate come rasoiate sulla voce luttuosa di Brad Hargett, vero erede di Paul Haig, che della band scozzese fu glorioso frontman. Mentre la cover di Still As The Night di Lee Hazlewood, diventa uno spaghetti western in cui riecheggia il fantasma dell’antieroe Jeffrey Lee Pierce. Quella della sublime Low Profile dei Blue Orchids (mitica post-punk band britannica che portò in tour Nico negli anni ottanta) è la seconda cover contenuta nell'EP. Non si differenzia sostanzialmente dall’originale, altrettanto delicata ed eterea, pennellata dalle lievi sfumature caratteristiche in cui oramai siamo abituati ad inquadrare la band di Brooklyn. È un sogno pop invece il brano che chiude questo splendido seppur breve - venti minuti scarsi- EP dei Crystal Stilts. Frost Inside The Asylum si svolge lenta e tenebrosa come la So tonight that I might see dei Mazzy Star, un raga ipnotico e lisergico, con un giro di chitarra rubato alla Some kinda love di Lou Reed e la voce mesta del cantante a congedarci e ad invitarci alla prossima folle corsa sui loro lunghi trampoli di cristallo, fragili e delicati come sogni, come utopie che ambiscono a sfiorare il cielo. 

 

Antonio De Luca
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