Migliora leggibilitàStampa
27 Settembre 2019

The Sound La Fuga Impossibile


Avevano lo zelo dei Joy Division, la maestosità epica degli Echo & the Bunnymen e la malinconia dei Cure. Avevano tutto, ma il motivo per cui i Sound non abbiano mai raggiunto la notorietà dei succitati resta uno dei misteri eterni sui quali poggia il dogma del rock and roll. Alcune band riescono a piazzare un successo dopo l’altro godendo di fama e fortuna. Altre non raggiungono mai la top 20 ma ottengono un seguito abbastanza sostanzioso da poter sostenere una carriera decennale. Poi ci sono coloro che - se non falliscono del tutto - collezionano una serie di incandescenti recensioni, le quali non si traducono mai in un riconoscimento pubblico su larga scala, finendo sotto la velenosa etichetta dei "favoriti dalla critica”. Nessuna delle tre ipotesi ha sorriso ai Sound, eterni perdenti che si affacciarono sulla scena post-punk inglese. Una pesante eredità di sei fantastici album registrati in studio (tra cui uno in particolare – “From the Lions Mouth”, del 1981 – imparagonabile nel suo genere) e un live muscolosissimo non sono bastati a rendere sempiterno omaggio ad una band che poche eguali ebbe nel variopinto mondo di quella che, una volta, si soleva appellare come new wave. Come scrisse allora Steve Sutherland sul Melody Maker: "con From The Lions Mouth potrebbe anche finire il genere rock per quanto è eccezionale questo disco". Un secondo album che trasmetteva la cruda intensità e le cupe atmosfere di molti colleghi d’epoca ma con un proprio inconfondibile suono; un leader geniale e carismatico e delle strutture armoniche che han finito per mostrare un sentiero poco soleggiato ma sovente intrapreso anche da qualche adepto. Cosa sarebbero oggi gli Editors senza le trame e i tessuti dei Sound? Quale avvenire avrebbero potuto avere gli Interpol senza che si fossero chinati ad abbeverarsi (anche) su “Jeopardy”? Domanda retorica e questione di lana caprina, ormai. In Adrian Borland la band ebbe un frontman tanto motivato, coinvolto (e coinvolgente) quanto Ian Curtis o Robert Smith, giusto per citare due numi tutelari del periodo. Il perché ai Sound non accadde mai di assurgere all’Olimpo, è uno di quei misteri che, ancora oggi, continua a stupire. Probabilmente gli inizi degli anni ottanta erano talmente ricchi di ottima musica che i nostri rimasero semplicemente incastrati nella folla, incapaci di sgomitare. Parimenti c’entrava il fatto di appartenere alla stessa etichetta degli Echo & The Bunnymen, la Korova (satellite orbitante su Warner) circostanza che comportò una minore attenzione e non altrettanta spinta mediatica. Borland non aveva il physique du rôle della popstar sorniona né il fascino del giovane Ian McCulloch e la band tutta vantava un look da impiegati piuttosto che da rivoluzionari sovrani dell'angoscia. Il suicidio di Ian Curtis nel 1980 catapultò i Joy Division all'attenzione nazionale britannica. Quando Adrian Borland si suicidò, 19 anni dopo, la sua morte altrettanto tragica passò quasi inosservata. L’essere fuori fuoco in un’arte totalmente personale è una peculiarità ascrivibile a pochissime anime.

 

Genesi di cotanta arte che va ricercata indietro - addirittura nel 1977 - quando la sigla The Sound risorgeva dalle ceneri degli Outsiders, band londinese che definire poco nota è un eufemismo, ma il cui debutto “Calling on Youth” era stato il primo album punk autoprodotto, giusto qualche mese appresso allo “Spiral Scratch” Ep dei Buzzcocks. Gli Outsiders non assursero mai alle vere e proprie cronache del tempo, ma furono sufficiente e corroborante palestra per far sì che Borland portasse con sé il bassista Graham Bailey (poi soprannominato Green) nei Sound, alla ricerca di qualcosa di più profondo e con un peso specifico maggiore degli ormai angusti cliché dai tre arrabbiati accordi contro il governo.

 

Non era facile approcciare i Sound, sovente così umbratili e volutamente fuori fuoco, ‘quasi’ famosi ma sempre un passo indietro rispetto alle corazzate coeve. Non c’era mai tempo per loro, qualche altro collega era solito bruciarli sul filo di lana, lasciandoli in un’impasse che finirà col sigillarli in un limbo ingiusto. No, non era facile e difatti nemmeno io sfuggii all’assioma. Fu il classico caso a farmi cozzare addosso ai loro dischi (nello specifico la copertina di “Jeopardy”, album di debutto) che occhieggiavano dagli scaffali del mio negozio di fiducia. Osservando quell’illustrazione monocromaticamente lunatica, sapevo già istintivamente che mi sarebbero piaciuti. Ma non era ancora il momento, presi nota e rimandai l’acquisto in attesa di più eque finanze. In quegli anni ormai lontani comprare un album era un investimento significativo, dunque non ci si poteva permettere errore alcuno. Ne avevo quindi rimandato il possesso, beatamente inconsapevole delle recensioni che ne incensavano la magniloquenza. Qualche tempo dopo, attraverso una compilation su audiocassetta prestatami da un amico e contenente canzoni di “From The Lions Mouth” mi innamorai perdutamente e senza ritorno. Tornai in fretta al negozio e quel secondo album divenne il mio battesimo con Adrian Borland. Come è avvenuto per “Unknown Pleasures” dei Joy Division e mille altri manufatti di quella stagione, il tempo non ha affievolito la sua intensità, tutt’altro. Ora - se possibile - sembra ancora più potente nel suo dispiegare musica essenziale a suono orecchiabile seppure disperatamente reale. Nel 1981 i testi profondamente emotivi di Borland affrontavano il suo passaggio tormentato dall'adolescenza alla prima età adulta; il grido angosciato proveniente dal cuore di qualcuno che si ritrova consumato da tutto ciò che lo circonda, nuotando sempre controcorrente. La tragedia era solo dietro l’angolo.

 

I Can’t Escape Myself
"Non posso sfuggire a me stesso": È questo l’incipit inguaribile di Borland, il suo manifesto programmatico, la sua richiesta d’aiuto lunga un’intera vita. Il brano che apre "Jeopardy" mette subito le cose in chiaro. Un destino inciso tra i solchi dell’album di debutto della band. Immenso inno di allora (ma senza tempo e fuori dallo stesso) marchia a fuoco la poetica di un gruppo così peculiare nello scavare dentro gli anfratti dell’anima tormentata del suo leader. Da quando la puntina del mio giradischi solcò per la prima volta questi primi minuti scoprii che i Sound avrebbero potuto esplorare un lato della musica intenso, vibrante e disperato. Soprattutto disperato. Sonorità post-punk e struggenti fraseggi di tastiere e sintetizzatori; chitarre taglienti; batteria scarnificata al servizio di un suono cupo, ricco di riverberi, e paradossalmente anche pieno grazie all’abile tessitura delle melodie. "Jeopardy" è un viaggio lungo undici tracce, quasi sessanta minuti di musica, e - tra i tanti picchi qualitativi da segnalare - I Can't Escape Myself riserva un inarrivabile posto a sé. Il posto che si riserva agli Dei in procinto di cadere a terra. Angosciante, sempre sul punto di scoppiare in un ritornello fastidioso che puntualmente viene abortito sul nascere. Indimenticabile il riff che rimanda ad una sei corde in codice Morse e nondimeno indimenticabile il testo: «so many feelings pent up in here left all alone I'm with the one I most fear I'm sick and I'm tired of reasoning; just want to break out shake off this skin, I… I can't escape myself». Un’alternanza di chiaroscuri travestita da richiesta d’aiuto. Borland non può scappare da sé stesso, non potè mai farlo, e questa drammaticità sarà una costante di tutta l’epopea dell’uomo, prima che dell’artista. Per tutto l'album si alternano ballate quasi rock'n'roll di ottima fattura a pezzi più drammatici. Le tastiere di Benita "Bi" Marshall (poi sostituita da Colvin “Max” Mayer) sono sempre in primissimo piano, il basso ricorda il pulsare di Peter Hook dei Joy Division e la voce di Borland affascina come un vento freddo e impenetrabile. Missiles rivela una vena drammatica: «I missili causano danni e fanno un suono inquietante. I missili lasciano carneficina dove una volta c'era una città» canta Borland come se si aggirasse di notte, lungo arterie desolate di città fantasma. O ancora la chiesastica e notturna Unwritten Law, epica come un viaggio tra polverose strade solitarie alla ricerca di un amore perduto, perfetta per un romanzo di Ellroy. E Night Versus Day? Un bignami preciso e calibrato se si dovesse spiegare il post punk meno pacchiano ad uno stolto millennial. Gli U2 in nuce compaiono tra gli anfratti della spigolosa Desire, forgiata su assenze che feriscono. Non di solo spleen vive però Jeopardy: episodi veloci e frenetici - come Heyday – giungono tempestivi a spezzare una tensione sovente insostenibile. Un disco caratterizzato da canzoni che partono accarezzando, piano (a volte pianissimo) ed esplodono sul finale, altra caratteristica tipica di Adrian e soci. Capolavoro, si scrisse un po’ ovunque, non senza un fondo di verità dacchè "Jeopardy" brilla ancora di luce propria e di una scrittura davvero matura per un ventitreenne. Eppure bastano 12 mesi per avere un ancor più degno successore. Stavolta è Winning il mirabile inno che deflora e accompagna in cielo “From the Lions Mouth”. Borland stravolge tutto, il riff ipnotico della tastiera di Mayer puntella il ruggito di positività ribelle del cantante: «I was gonna drown … I was going down, and then I started winning». Un’esplosione, una tavolozza di colori primari appoggiata su saliscendi ritmici e su reminiscenze che riportano ai Cure di “Seventeen Seconds” con in sovrappiù il disperato canto di Borland. Una vittoria che è anche resa, ma che rimane negli annali tra i momenti più ispirati e toccanti della new wave tutta. Itera la liquorosa Sense of Purpose, quasi una chiamata alle armi: «a call to the heart, a call to have a heart». Tutto l’album è pervaso da una scrittura focalizzata e ispida; armonie che sposano d’amorosi sensi le pregnanti liriche di Borland. La squisita Contact the Fact è una canzone d'amore incondizionato, ma apparentemente non corrisposto, di una vulnerabilità quasi dolorosa: «Hate it when I’m crazy. It’s a side of love, you never wanted to see». Con Skeletons – ossuta e liturgica come da titolo - riappaiono i demoni: «There’s a gaping hole in the way we are, with nothing to fill it up any more».

 

La scena pop dei primi anni ottanta non era di certo priva di tipi lunatici - ed ogni adolescente (come me) avrebbe seguito pedissequamente i dettami dell’epoca: aria cupa, frangia sugli occhi e album dei Joy Division sottobraccio, ‘per avere più carisma e sintomatico mistero’. Ascoltando "From the Lions Mouth" da adulto, risuona come un album illuminato da una maturità impressionante e stritolato da una prima, latente, depressione. I problemi di Borland si intravedono già in Fatal Flaw: «sono sparito in maniera disperata, quella che nessuno può vedere, non puoi più raggiungermi, voltati e affronta il difetto fatale». In Possession lo ritroviamo a combattere i propri demoni: «A war being waged, that can never be won». Il senso di impotenza si erge immane in New Dark Age, brano che chiude l’album e avvicina i Sound alla perfezione: «scratched away at the walls for years, and all we’ve got to show is the dust on the floor». Non vi è speranza tra i solchi, Borland è quasi completamente bandito dal grido percussivo, crudo e primordiale della musica, nel quale il nostro sembra essere pronto a buttar giù porte e a battersi contro tutti, conscio della sconfitta finale.

 

«Quindi questo avrebbe dovuto essere. Il grande, importante, secondo album», scrive il batterista Michael Dudley nelle note della copertina della ristampa. Non fu così. Sebbene "From the Lions Mouth" raggiunse le 100.000 copie in tutto il mondo, non fu abbastanza. Dudley osserva: «I Sound hanno avuto un impatto decisamente maggiore in Germania e nei Paesi Bassi piuttosto che nel Regno Unito. Ogni volta che vi facevamo ritorno, sentivamo la porta della cella che si chiudeva dietro di noi ». Si muove qualcosa, nelle impazienti strategie commerciali del tempo, ma non basta: la Warner comincia ad esercitare pressioni per avere un album di maggior successo commerciale, spinge in maniera netta. Ha un capitale immenso che non riesce a monetizzare. La reazione dei Sound è rabbiosa e senza compromessi, decretando in qualche modo la fine dell’esposizione mediatica.

 

Calling The New Tune
“All Fall Down”, quello che una volta si sarebbe chiamato ‘il difficile terzo Lp', prosegue sulla scia del predecessore seppure con un andamento più discontinuo tra momenti cupi ed altri di respiro più pop, privi tuttavia di quello smalto scintillante ai quali ci avevano abituato. Se i testi di Borland riparano verso un enigmatico ermetismo, le musiche - e in generale la costruzione dei brani - tradiscono tutta l'inquietudine del periodo. Tra episodi di rabbia, tristezza, conflitto (ma anche di riflessione e poesia) si snoda un lavoro difficile, malinconico, ma non per questo privo di fascino. La title track iniziale rimane imprigionata tra i battiti oscuri della grancassa, mentre le tastiere disegnano paesaggi sinistri. Arriva in tempo la leggerezza di Party Of My Mind, una gemma pop fragile ed originale, con un Borland sornione che ci invita tra le intricate vie della sua mente caleidoscopica. La prima sorpresa è Monument: lenta, massiccia come da titolo, circolare, così poetica e misteriosa da farsi ascoltare anche centinaia di volte, fino alla sua piena rivelazione. In Suspense e Where The Love Is sono invece episodi incerti, sospesi a mezz'aria tra slanci combattivi ed ordinaria amministrazione. Meglio allora Song And Dance, che apre il lato B e – pur essendo anch'essa frammentaria – risulta più credibile nella sua irruenza. Un brano teso, emblema degli umori che si potevano respirare dentro e fuori gli studi di registrazione durante quegli anni cruciali. E poi Calling The New Tune, uno strano esperimento di pop elettronico (ma non sintetico), dove ogni strumento percorre strade inusuali. L'attacco di Red Paint, epica e serrata, ci riporta finalmente tra le fauci dei leoni con l'immediatezza e la furia di solo pochi mesi prima. E se Glass and Smoke stende una lunga e ossessiva trama ipnotica sopra la quale la chitarra sfoga tutti i suoi impulsi più abrasivi, la conclusiva We Could Go Far risulta affascinante ed impalpabile; una nebbia d'inverno che avvolge le strade lasciando spuntare solo i lampioni, un piccolo capolavoro col quale un Borland dalla voce spezzata prende così commiato: «le frontiere sono state stabilite per la vita, ma i nostri occhi sono ancora doloranti per aver voluto dare un’occhiata dall’altra parte. Sapremo dove siamo, potremmo cadere, ma potremmo anche andare lontano». Con "All Fall Down", struggente e ambiguo, i Sound si allontanano ancor di più dai riflettori. Un disco così brutalmente intenso e privo di concessioni da spingere la Warner a lasciarli precipitare in un limbo nel quale la rescissione del contratto è il colpo di grazia per Adrian Borland e sodali.

 

Acceleration Group
“Shock of Daylight” (1984) e “Heads and Hearts” (1985) apparvero con la produzione della Statik (con in mezzo il live In The Hothouse), mentre “Thunder Up” (1987) fu il canto del cigno, marchiato Play It Again Sam (PIAS). L’ascolto del primo suggerisce un’unica parola: sfida. La stessa che lo anima con la ferocia dell’iniziale Golden Soldiers, una canzone che trasuda sincerità e amore con il suo accorato «potrei andare in guerra per te». Borland suona così forte e sicuro di sé su Golden Soldiers che - con il senno di poi - rende la sua donazione definitiva più difficile da accettare. Una grande, grandissima canzone: per le chitarre rigide, per un basso che trasuda intensità, per dei patchwork di tastiera che quasi rimandano alla psichedelia aguzza dei Seeds o di Question Mark & The Mysterians. Ma non è tutto qui "Shock Of Daylight", ci sono altri bei momenti da sottolineare. Come Longest Days, traccia splendidamente realizzata, con una chitarra rovente e un'eccellente intersezione ritmica di Graham e Bailey. Gli va appresso Counting The Days (estratta anche su singolo) che, sebbene non sia necessariamente uno dei punti salienti dell'album, è il tipo di traccia midtempo che i Sound hanno sempre magistralmente saputo scrivere. E poi Winter. Un tema a me caro, quello della stagione fredda, un tema che Borland ha sovente interpretato in modo intenso e appartato. Il verso «almeno lasciami dormire attraverso l'inverno» assume un significato commovente in relazione alla sua tragica scomparsa.
Con il successivo “Heads and Hearts” i Sound perfezionano il nuovo corso, improntato su un pop ombroso, decadente e raffinato (grazie anche alla cristallina produzione di Wally Brill). Il classico ‘disco della maturità’ ma nessuno se ne accorge. È trascinato da quel commovente inno chiamato Total Recall, ovvero quasi sei minuti di battiti cardiaci dominati da un giro di basso singhiozzante e da delle tastiere avvolgenti, con la voce di Borland che esplode nel melodioso ritornello (posso vedere una vittoria lontana, il tempo in cui tu sarai con me) quasi invocando una via d'uscita dal suo soffocante mal di vivere. Punto altissimo di una già altissima carriera Total Recall possiede l’intero spettro dell’emotività Sound in una sola canzone. Scollinano, i nostri, con questa canzone. Da qui non vi sarà più ritorno. Under You e Love Is A Not Ghost sono nuove incursioni nei dirupi della paranoia, seppur mitigate da suoni più levigati. Restless Time sfodera un altro dei ganci d'acciaio, mentre la pacata Mining For Heart, la ballata Temperature Drop e la sinuosa Wildest Dreams testimoniano la ricerca di atmosfere più soffuse, ma non meno malinconiche.

 

“Heads And Hearts” è anche il loro capolinea. Provati dagli insuccessi e dal disagio personale del loro leader, i Sound si avviano verso la fase finale della loro sfortunata parabola. Ma, prima, c’è ancora il tempo di una celebrazione: a sigillare la loro carriera provvede il live (su doppio vinile) “In The Hothouse”. Registrato al Marquee Club nell'agosto del 1985 in due torrenziali serate vede la band in un invidiabile stato di grazia. Una scaletta formidabile fin dalla quaterna iniziale (Winning, Under You, Total Recall e Skeletons) e che prosegue passando in rassegna l’intera carriera, da Heartland a Sense Of Purpose, da Silent Air a Missiles. Le ellissi chitarristiche, imbastite su distorsioni e dissonanze; il manto cupo delle tastiere, spesso anche solo abbozzate per accennare la melodia, forgiano il loro classico suono teso e notturno, mentre Borland interpreta ogni canzone come se fosse l'ultima della sua vita, con il suo tipico timbro baritonale, così colmo di rappresa disperazione. In The Hothouse, col senno di poi, è una sorta di testamento della band, che, di lì a poco, cadrà letteralmente nell'oblio. Ma prima della fine c’è ancora spazio per un disco dalla ennesima, travagliata, gestazione. La Statik, infatti, viene messa in liquidazione per problemi economici. Così “Thunder Up” (1987) esce per una nuova etichetta, la belga Play It Again Sam. Passerà criminalmente sotto silenzio e per qualcuno sarà null’altro che accanimento terapeutico quando invece alcuni membri della band lo definiranno il loro album migliore, per qualità dei suoni e intensità dei testi. Se in medio stat virtus è altresì vero che "Thunder Up" è un disco che ha acquisito grazia e dignità col passare degli anni, pur se in realtà - al di là del coraggio nelle scelte - la scrittura dei Sound appare piuttosto contorta e fuori fuoco, oscillando tra l'adrenalina rock dei primi due album e le emotive sperimentazioni umbratili di "All Fall Down". La sintesi più riuscita è probabilmente Barria Alta (definita da Mike Dudley la canzone migliore dell'intero repertorio Sound) avvolta in sinuose volute di synth, supportate da un drumming marziale e dal canto profondo di Borland. I cambi di ritmo dell'iniziale Acceleration Group, le cadenze serrate di Kinetic, le soffici tonalità  di Hand Of Love e Web Of Wicked Ways o ancora il ginepraio di distorsioni di I Give You Pain offrono gli altri momenti salienti di un disco in cui però scarseggiano quei colpi ad angolo retto dei tempi d'oro e troppo spesso si ha l'impressione che la band giri a vuoto. Emozionano sempre e tuttavia sono i testi di un Borland ostaggio del suo malessere, ormai esploso in tutta la sua gravità. Un malessere che si manifesta con sintomi allarmanti, come la temporanea perdita di contatto con la realtà e la sensazione di udire ‘voci’ nella testa. Al pessimismo per la sua vicenda personale (don't say there's a time and place, for everyone who waits, It's a load of lies, questa l'amara constatazione di Iron Years) si affianca l'orgogliosa e indomita rivendicazione di una storia collettiva a nome Sound: «le fiamme saranno tremolanti e la scrittura diverrà ondulata, ma c’è qualcosa di tutto questo, da qualche parte, che andrà avanti per sempre» (Acceleration Group). Adrian Borland è ormai consapevole di essere condannato dal suo disagio (ho perso sensibilità, forse puoi vederne le cicatrici), ma riesce ancora a intravedere un barlume di speranza, sognando una liberazione dalle forze negative (Barria Alta). Purtroppo è nella sconnessa Shot-Up And Shutdown che la malattia affiora brutalmente: dietro l'attacco all'era Thatcher (gran parte dell’Inghilterra sta dormendo al sole. Ma non tutti), si cela la feroce descrizione di un'agonia personale (mi sento come un pezzo di legno, le mie braccia non fanno ciò che ordino loro e le mie gambe non fanno quello che dovrebbero fare, mi sento come un tuono d’estate).

 

Pur non essendo particolarmente significativo sul piano musicale, "Thunder Up" acquista pregio proprio per la commovente intensità dei testi, che raccontano la disperata lotta di un uomo che cerca di dare un senso alla propria esistenza e - contestualmente - salvare la cosa che più ama: la sua band. Per i Sound però ormai è finita. Lo scioglimento viene ufficializzato all'inizio del 1988, tra l’indifferenza generale. Un commiato davvero mesto, per una band di questo rango. Ci sarà il tempo per altri spicchi di discografia, come "Propaganda", ad esempio. Disco di transizione registrato a casa di Borland nel 1979 da un gruppo che non si chiamava ancora The Sound ma che aveva smesso di chiamarsi The Outsiders. Un disco che vedrà tre brani finire in "Jeopardy". Quasi tutto il catalogo verrà provvisoriamente ristampato dalla Renascent (assieme ad un imperdibile "BBC Recordings" che vi esorto a far vostro) all’inizio degli anni duemila.

 

Borland rimane solo: tenta dapprima la carta degli Adrian Borland and The Citizens con i prescindibili "Alexandria" (PIAS, 1989) e "Brittle Heaven" (PIAS, 1992) che indulgono in un cantautorato melodico senza aggiungere granché al suo repertorio. Poi, intraprende una carriera solista che scorre nell'anonimato attraverso cinque dischi stanchi, testardamente ancorati a un suono ormai fuori tempo massimo. Trova altresì tempo per dedicarsi al progetto parallelo dei Second Layer e alla produzione di alcuni gruppi indie (Celibate Rifles, Dole, Steve Lake, Red Harvest e gli ottimi Felt). Una delle sue ultime esperienze lo vede nei White Rose Transmission insieme ai cantanti Carlo Van Putten e Claudia Uman, al tastierista e chitarrista Florian Brattman e al violinista David Maria Gramse, in un progetto che riscuote un certo interesse da parte della critica. Ma, attorno a lui, tutto si fa sempre più buio. Dopo essersi trasferito per un periodo in Olanda (sorta di ‘seconda patria’ dei Sound), torna a Londra, nella casa della madre. In una delle sue ultime lettere, sul suo sito ufficiale, scrive di sentirsi bene e di essere molto eccitato per l'inizio delle registrazioni del suo sesto album, "Harmony and Destruction". Affida il messaggio ai fan, terminandolo con queste parole: «To those that still care, thanks, you'll be hearing from me! Adrian Borland P.S. Sane, as we speak». Era ormai emerso da tempo e in modo chiaro che Adrian soffriva di disturbo schizo-affettivo, misto a un problema di alcolismo. Il recente film documentario “Walking In The Opposite Direction” (in circolazione nei festival europei) riferisce i vari tentativi di suicidio causati da questa grave patologia della personalità. Sono anni difficili questi, per Adrian Borland e la sua carriera solista sarà segnata da luci, ombre e sacrifici, fino a quel tragico decesso del 1999. L’improvviso scioglimento dei Sound aveva determinato in Borland l’impulso a continuare la sua carriera artistica da solo. Probabilmente, se Borland e Mayer, morto di Aids nel 1993, fossero sopravvissuti, i Sound si sarebbero riuniti trovando forse, grazie anche ai moderni mezzi del web odierno, quel vasto consenso sempre mancato loro.

 

Resta il mio più grande rammarico, inciso a fuoco sulla pelle: pur avendoli visti due volte dal vivo, riuscii solo ad incontrare Adrian Borland in un solo e unico momento, nei camerini dello Slego di Rimini, in un faccia a faccia che avrebbe potuto divenire memorabile. Volevo intervistarlo, ma Adrian era così ubriaco da non riuscire a formulare una frase di senso compiuto. Fu ugualmente adorabile nella sua fragilità, abbracciandomi e stringendomi la mano ripetutamente. Era visibilmente commosso; e io con lui. Volevo solo lasciare che Adrian Borland godesse di un momento di gloria e di quella che sembrava un’autentica felicità. Winning.

 

 

Francesco Battisti
  • Discografia consigliata:
  • album
  • Jeopardy, 1980 (Korova);
  • From The Lions Mouth, 1981 (Korova);
  • All Fall Down, 1982 (Warner Bros.);
  • Heads And Hearts, 1985 (Statik);
  • Thunder Up, 1987 (PIAS).
  • EP
  • Physical World Ep, 1979 (Tortch Records);
  • This Cover Keeps Reality Unreal, 1983 (Cherry Red Records);
  • Shock Of Daylight, 1984 (Statik).
  • live
  • Live Istinct, 1981 (WEA);
  • In The Hothouse, 1986 (Statik);
  • The BBC Recordings, 2004 (Renascent).
Inizio pagina