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9 Aprile 2012 , ,

Robert Wyatt LA CANZONE DEL MARE: LA PAROLA ORFICA DI ROBERT WYATT

2012

Nascita di una mitografia: ritratto dell'artista da giovane...

Un Orfeo a cui è rimasta solo l'eco del suo canto. Un'eco capace però di sovvertire magicamente l'ordine universale delle cose. Così mi raffiguro Robert Wyatt, oltre il profilo mitologico, che pure gli appartiene: un rapsodo fragile e geniale di questa oscura quotidianità. Artista multiforme e grandemente permeato degli effluvi olezzanti della grande poesia (i suoi testi ne sono somma testimonianza, talora composti insieme alla moglie Alfreda Benge, Alfie, poetessa ella stessa e grande ispiratrice di molte canzoni di Robert), Robert Ellidge, nasce a Bristol il 28 gennaio 1945. Più tardi, assumerà il cognome materno, Wyatt. Sin da giovanissimo è irresistibilmente attratto dalla poesia. Oltre all'amico di famiglia, Robert Graves, grande poeta e formidabile appassionato di jazz, Wyatt conosce molti dei poeti della beat generation sull'isola di Maiorca, dove appena adolescente si trasferisce insieme ad alcuni amici per trascorrervi un breve periodo di vacanza. Ormai, residente in pianta stabile a Lydden, nei pressi di Canterbury, Robert incontra taluni dei personaggi che artisticamente lo accompagneranno per tutta la vita: Mike Ratledge, Dave Sinclair e i fratelli Hopper, Brian e Hugh. Più tardi, una simile compagnia andrà a costituire il nucleo dei mitici Soft Machine.

 

Altro incontro decisivo per il giovanissimo Wyatt è quello col geniale e svitato Daevid Allen, artista australiano trasferitosi in Inghilterra e inquilino di casa-Wyatt, e in seguito fondatore dei grandissimi Gong, che lo inizia all'uso dell'Lsd e di altre non meglio qualificate sostanze psicotrope. I summentovati amici trascorrono gran parte delle loro giornate ascoltando musica, soprattutto jazz, passione che poi andrà a confluire in molti dei lavori non solo dei Soft Machine, ma dei gruppi successivi o paralleli a questi ultimi, e dell'intera scena di Canterbury, a tal punto che in via di eponimia la cittadina britannica assurgerà a vero e proprio simbolo di un genere musicale, una miscellanea di Progressive e jazz-rock. Le frequentazioni bizzarre, l'uso di sostanze allucinogene e una certa qual proclività alla cupio dissolvi, portano il giovane Wyatt sul limitare della morte: tenta infatti il suicidio, ingerendo una considerevole quantità di barbiturici, Viene trovato svenuto in camera sua e salvato in extremis. Allen, ritenuto indiretto responsabile del gesto di Wyatt, è costretto a lasciare la casa e si trasferisce a Londra. Città nella quale i due si ritrovano qualche mese dopo e mettono su una band, il Daevid Allen Trio, insieme a Hugh Hopper. Il loro repertorio è costituito di suoni spiccatamente jazz, organizzano anche readings di poesie beat. In uno di questi happenings, suonano al celeberrimo Marquee Club. La Voiceprint Records, nel 1993, farà uscire il cd di quella 'live performance', col titolo “Live 1963”.

 

L'omaggio...floreale a Oscar Wilde: i Wilde Flowers.

Intanto, nel 1964, a Canterbury, mentre Wyatt è a Deià, Maiorca, con Daevid Allen e Kevin Ayers, i fratelli Hopper insieme a Richard Sinclair, formano i Wild Flowers, gruppo dalle sonorità spiccatamente beat, che poco dopo con l'ingresso di Wyatt e Ayers, prenderanno il nome di Wilde Flowers, in omaggio al sommo poeta Oscar Wilde. Quasi subito, però, Ayers lascia il gruppo e viene sostituito con Richard Coughlan, più tardi batterista dei grandi Caravan, mentre Robert si esibisce come vocalist. I Wilde Flowers tengono diversi concerti in Inghilterra, specie dalle parti di Canterbury, ma non incidono alcun album, fino allo scioglimento, avvenuto nel 1966. Nel 1994, con materiale tratto dagli archivi di Brian Hopper, la solita benemerita Voiceprint Records fa uscire il cd omonimo Wilde Flowers”, e tra il 1998 e il 1999, una tetralogia del Canterbury Sound di quegli anni, sempre attingendo allo sconfinato archivio di Hopper.

 

La Morbida Macchina, teoria e prassi di ordinaria alienazione sonora.

Nel 1966 nasce uno dei gruppi più importanti e decisivi dell' intera storia del progressive: i Soft Machine, nome tratto dall'opera del grande scrittore americano Willlam Burroughs. Il nucleo originario dei Soft Machine è costituito da  Robert Wyatt alla batteria e alla voce, Kevin Ayers al basso e alla voce, Daevid Allen alla chitarra e Mike Ratledge alle tastiere. Il suono è un virtuoso impasto di psichedelia e jazz-rock, la chiave ermeneutica finale è il Progressive, quel peculiare Canterbury-sound cui si accennava sopra. Gruppo mostruoso i Soft, sin dagli esordi riscuotono una copiosa messe di consensi, i loro concerti sono capolavori di sperimentazione sonora e classe compositiva. Vengono richiesti come gruppo spalla dai leggendari Pink Floyd, e suonano altresì col più grande chitarrista rock di ogni tempo, il favoloso Jimi Hendrix. La loro musica seduce i critici più esigenti, con una deflagrazione di prodigioso talento e soluzioni di spettacolare improvvisazione scenica. Incidono il loro primo 45 giri, Love makes sweet music. Grazie al produttore Giorgio Gomelsky, i primi brani del gruppo vengono incisi ma vedono la luce solo nel 1971, col titolo “At the beginning”. Nel frattempo, il folle Allen, per problemi di smarrimenti di documenti (da qui la sua ben meritata fama di apolide!), non può restare in Inghilterra e ripara in Francia, dove fonderà i Gong. I Soft Machine contemplano adesso solo tre membri nella loro line-up e arrivano al sospirato primo album effettivo, “Soft Machine”, negli U.S.A, a seguito di un tour al seguito del grande Jimi Hendrix.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Alla fine del tour la band si scioglie, è il 1968. Alcuni dei brani di questo periodo, tra cui Moon in June in embrione, e Slow walkin' talk, con Jimi Hendrix al basso, vengono pubblicati a parte, anni dopo. Tuttavia, per questioni meramente contrattuali, la band è costretta a riunirsi, diremmo per nostra buona sorte visti gli esiti, e incide il secondo album nel 1969, “Volume Two”, con Hugh Hopper al posto di Kevin Ayers. Qui, le influenze sono da ascrivere allo sperimentalismo di Terry Riley, guru autentico della musica d'avanguardia e alla follia più o meno lucida del Frank Zappa più allucinato. Pietra miliare del gruppo però è il terzo album del 1970, il doppio Lp "Third”, capolavoro supremo dei Soft e punto di paragone imprescindibile per chiunque si cimentasse col jazz-rock, tipologia di sonorità che ne costituisce il nerbo e la ragion d'essere. Brani quali Moon in June, Slightly All The Time, costituiscono la quintessenza della scena musicale inglese, e non solo, di quel periodo. Contestualmente, però, nascono aspri dissapori tra i membri della band, in ordine all'indirizzo musicale da seguire, e Wyatt esce definitivamente dal gruppo per mai più ritornarvi e intraprendere un altro tipo di carriera, dapprima coi Matching Mole e dopo da solista, con soluzioni sonore tra le più variegate possibili e immaginabili.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Di una diversa maniera di essere Morbida Macchina: i Matching Mole.

L'esperienza dei Matching Mole - traducibile come ‘Incontro tra talpe’, in realtà libero adattamento per estensione omofonica, in francese, di ‘Morbida Macchina’, ‘Machine Molle’, Soft Machine - rappresenta quindi uno dei momenti più alti, artisticamente parlando, del primo Wyatt. Insieme al Nostro Phil Miller alla chitarra, Bill MacCormick al basso e David Sinclair alle tastiere. Il gruppo licenzia due grandi dischi: l'omonimo “Matching Mole” e lo spettacolare Little Red Record”, rispettivamente usciti nel 1971 e nel 1972. Nel primo, Wyatt dà libero sfogo al suo incredibile talento, dando maggior rilievo, finalmente, alla sua splendida e particolarissima voce. Un brano come O Caroline  ne è somma e meravigliosa dimostrazione. Il secondo, dove prende definitivamente corpo, balzando con clamorosa evidenza alle cronache, la virata politica del Nostro, già presente in lui seppur in forma embrionale da sempre, ed evidente sin dalla copertina del disco, con immagini dei musicisti in veste di guerriglieri, che ne caratterizzerà l'intera successiva esistenza artistica e umana. 

 

Al disco, mentre intanto Dave MacRae ha preso il posto, alle tastiere, di Sinclair, collaborano personaggi di assoluta grandezza, come Robert Fripp, il Re Cremisi, e Brian Eno. I testi sono fortemente caratterizzati politicamente, a sinistra ovviamente, e l'impianto sonoro è assolutamente sperimentale e contrassegnato da grande maturità artistica e varietà suprema di soluzioni stilistiche. Il gruppo si scioglie poco dopo. Successivamente, un serio tentativo di ricostituzione, mentre è in preparazione ad opera soprattutto di Wyatt il materiale del terzo disco, viene vanificato dal pauroso incidente occorso a Wyatt, il Primo Giugno del 1973, che ne comprometterà fortemente la resa come batterista ma non il talento immenso di cui è in possesso, se possibile affinandolo vieppiù e dando alla sua musica quel velo di spleen baudelairiano che non l'abbandonerà mai più.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il moto spiraliforme del nero: tormento ed estasi. The End of an ear

Nel 1970, per la Columbia, vede la luce uno dei dischi più belli e incompresi di Robert Wyatt: “The end of an ear”. Il suo primo lavoro da solista, coevo a "Third” dei Soft Machine, si caratterizza per uno spiccato senso della sperimentazione: il sound è prodigiosamente d'avanguardia, vocalizzi al limite del non-sense, note come tirate per i capelli, una miscela incoercibile di free jazz, dadaismo puro, scardinamento in chiave sonica di ogni ordine costituito. Vi suonano: Neville Whitehead al basso, Mark Charig alla cornetta, Elton Dean al sax alto, Mark Ellidge, il fratello, al piano, Cyril Ayers alle percussioni e David Sinclair all'organo. Sin dall'iniziale Las Vegas Tango, ispirata al brano dell'immenso Gil Evans, si comprende come un disco del genere sia destinato a restare confinato entro una ristretta cerchia di aficionados, in ragione, dicevamo, della sua portata musicale, e filosofica, assolutamente esoterica. Un grumo di suoni amalgamati inscindibilmente con la voce Robert Wyatt THE END OF AN EARcamaleontica e incredibilmente eclettica di Robert. Vi si ravvisa tra i solchi, l' imprescindibile lezione di Daevid Allen, ringraziato tra l'altro in uno dei brani, esattamente il ‘Gong oriented’ To Oz Alien Daevyd And Gilly. Altri brani notevoli ma di oggettiva osticità all'ascolto sono: To Caravan and Brother Jim, To The Old Wolrd e la finale cavalcata, puro delirio sonico, della ripresa di Las Vegas Tango... Un disco splendido nella concezione e negli esiti avanguardistici altamente spettacolari, ma che resterà relegato in una zona d'ombra, nell'ambito della produzione solistica del Nostro.

 

Rock Bottom: la malinconia delle sfere celesti. Ed é Capolavoro senza tempo!

Il Primo giugno del 1973. in occasione della festa di compleanno di Gilly Smyth, la fidanzata di Daevid Allen, Robert, totalmente ebbro, cade dal terzo piano dell'abitazione, procurandosi la lesione della colonna vertebrale. Rimarrà a vita su una sedia a rotelle e per molto tempo non potrà più suonare la batteria. Un colpo durissimo alla carriera del Nostro, che però saprà riprendersi in spirito, recuperando la gioa del creare musica, e anzi, affinando, per così dire, la sua già spiccatissima sensibilità artistica, arricchendola di concezioni nuove e inusitate, e facendo discendere sulle sue note quel sottile velo di crepuscolare malinconia che non l'abbandonerà più, e che immergerà la sua musica in quel purissimo fonte d'acqua lustrale che la connoterà poeticamente a livelli siderali. Col conforto e l'ausilio tecnico dei numerosi amici, e prodotto da Nick Mason, nel luglio del 1974 per la Virgin, esce il capolavoro eponimo di Wyatt, quel “Rock Bottom” che rappresenta senz'altro una delle massime vette della storia del rock. Molto del materiale contemplato in questo disco, era destinato al terzo album dei Matching Mole, ed è un virtuoso esempio di sintesi di minimalismo rock, gusto dell'avanguardia e ballata struggentemente melodica.

 

Vi suonano musicisti eccelsi quali: Mongezi Feza, geniale trombettista sudafricano, di lì a poco destinato a una tragica morte prematura, Fred Frith alla viola, Mike Oldfield alla chitarra, Gary Windo al clarinetto, e i fedelissimi Richard Sinclair e Hugh Hopper che si alternano al basso. L'album è un vero e proprio capolavoro di grazia musicale, un giardino armonico ebbro d'efflorescenze irripetibili e di suprema poesia. Sin dall'incipit, con la prodigiosa Sea Song, il tono è già meravigliosamente elegiaco, al piano suonato da Wyatt s'innerva come edera soprannaturale la sua voce, tra il lamento avernale e l'urlo prometeico non ancora erotto dall'ugola. Una delle più belle canzoni di ogni tempo, in cui amore, disincanto dell'umano, trasfigurazione metamorfica  in entità ancestrali, dolore promanante dal cuore stesso della ferita, divengono canto orfico teso a strappare al nulla frammenti di splendore, esiliato nella materia del mondo ordinario. “Finché il tuo sangue corre a incontrare la luna piena, la tua follia si accorda perfettamente alla mia ... Noi non siamo soli”, recitano i versi finali di questa perla assoluta e dall'inestinguibile lucore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La successiva The Last Straw rimane adagiata su di un solco di sognante melodia, con la voce di Robert a lussureggiare tra le fronde musicali della chitarra e della modulazione tastieristica. Con Little Red Riding Hood Hit The Road torniamo invece al dettato sperimentale di “The End Of An Ear”, con la tromba prodigiosa di Feza a spadroneggiare e a perfettamente spalleggiare la solita, soprannaturale voce di Wyatt. Alifib rappresenta, invece, uno dei brani più intensamente sofferti della storia della musica contemporanea. La chitarra deliquescente di Oldfield, divenuta via via una sola immensa lacrima sonora, si fa strada come attraverso una dolorosa  foresta di simboli, esemplata dalla voce piagata di Robert, ai limiti del gemito e dello spasimo musicale. Brano commovente e dalla grandezza tragica ineguagliabile. Il livello sperimentale più puro torna ad affiorare in Alifie, sorta di continuazione in termini di estenuato delirio formale del brano precedente. La giusta epitome del disco è sancita dalla splendida Little Red Robin Hood Hit The Road, a suggellare con lo stigma della grandezza intramontabile uno dei massimi capolavori della storia della musica del Novecento.

 

Ritorno sulla scena: Drury Lane e  dintorni.

Nel settembre del 1974, l'otto, i numerosi amici di Robert organizzano a Londra in suo onore una grande kermesse musicale, al Theatre Royal Drury Lane. Storico concerto che confluirà in un cd nel 2005 a cura della Hannibal, e nel 2008 in un doppio lp per la Domino, col titolo di “Robert Wyatt & Friends”. Non si tratta della prima apparizione live del Nostro, dopo il tragico incidente, poiché s'era  già esibito alla batteria in occasione di un concerto di Kevin Ayers, insieme a John Cale, Nico e Brian Eno, al Rainbow Theatre di Londra, poi pubblicato col titolo di “June 1, 1974”. In “Drury Lane” v'è un parterre d'eccezione: Nick Mason, Dave Stewart degli Hatfield, con cui Robert aveva inciso dei brani stupendi, Mike Oldfield, Julie Tippetts, Mongezi Feza, Fred Frith, Hugh Hopper. Il concerto attinge vette di qualità prodigiosa, con  meravigliose versioni di Sea Song, The Last Straw, Alifib,e di altri brani tratti dallo splendido “Rock Bottom”, e taluni frammenti estrapolati dai dischi con i Matching Mole, Signed Curtain, dei Soft Machine, Memories, o scaturiti dalla sua collaborazione con gli Hatfield & The North, Calyx. 

 

Oltre ad assurgere a prezioso documento sonoro della nuova vita artistica di Robert, questo è un disco qualitativamente eccezionale, sia per l'intatta bravura vocale del Nostro, sia per la contemporanea presenza di una simile copia di straordinari musicisti al suo fianco. Nel 1975, per la Virgin, esce il suo terzo album da solista: “Ruth Is Stranger Than Richard”. A parere di chi scrive, il disco ha il “torto” di uscire immediatamente dopo “Rock Bottom”, ma in generale, sia pur interessante dal punto di vista musicologico, con una virata stilistica vieppiù orientata verso il free jazz soprattutto, rappresenta un episodio non certo esaltante nella carriera solistica di Robert. Accanto a lui, troviamo i soliti immensi musicisti: Phil Manzanera, Fred Frith, Mongezi Feza, Bill MacCormick, John Greaves, Laurie Allan dei Gong. Certo, brani quali Team Spirit, Soup Song, Solar Flares, Song For Che mantengono un livello qualitativo indubbiamente buono, ma siamo a distanze siderali dalla grandezza del disco precedente.

 

L'alfiere dei diritti umani: il periodo dell'impegno socio-politico di Wyatt.

Prima di una lunga pausa, in ordine all'incisione di opere proprie, Robert collabora con svariati musicisti, dando vita a esperienze sonore che pur nella notevole eterogeneità degli stili rappresentano episodi importanti per la storia della musica progressive e di avanguardia del periodo in questione. Oltre ai già citati Hatfield & The North, collabora con gli Henry Cow; con Nick Mason in “Fictitious Sports”. Nel frattempo, si accentua la sua inclinazione alla militanza politica e alla lotta per la difesa dei diritti civili, soprattutto rivolgendo la sua attenzione ai paesi del terzo mondo. S'iscrive al Partito Comunista da cui uscirà alla fine degli anni '80, pur restando nettamente all'interno di quell'area di riferimenti socio-politici. Incide in più occasioni brani di altissimo contenuto politico, o in difesa dei diritti delle minoranze perseguitate nel mondo. Grazie al titolare della Rough Trade, Geoff Travis, escono sue reinterpretazioni di brani storicamente di lotta quali: Guantanamera, Biko, Venceremos, Te recuerdo Amanda, Yolanda...In seguito, questa copiosa messe  di canzoni politiche vedrà la luce in corpo unico nella raccolta “Nothing Can't Stop Us”  insieme a gemme melodiche d'inestimabile valore come la trasfigurata cover senza tempo di At last i am free degli Chic - interpretazione vocale da brividi di Wyatt - ed un'altra altrettanto toccante di Strange Fruit di Billie Holiday.

 

Old Rottenhat

Dovrà giungere il 1985, perché si possa vedere un nuovo album di Wyatt: esce infatti, per i tipi della Rough Trade, “Old Rottenhat”. Disco bellissimo, diciamolo subito, a rafforzare il nostro convincimento che spesso le pause tra un disco e l'altro giovano alla qualità, consentendo agli artisti di raccogliere e filtrare quante più idee e innovazioni stilistiche possibili. A partire dalla splendida Alliance, il disco comincia a dipanare le sue note in direzione di un approccio musicalmente eccellente, ma ora dai contenuti vieppiù pregni di riferimenti politici e sociali molto forti. Inoltre s'avverte la mancanza dela solita eccezionale pletora di grandi musicisti ad affiancarlo come nei precedenti lavori. Qui, Robert è da solo, piano, batteria e voce, a conferire all'opera un'impronta minimalistica in quanto a cifra stilistica che non disdice affatto, anzi. Brani come United States Of Amnesia, East Timor, Vandalucia, rappresentano icasticamente la forte, irriducibile azione di contrasto di Robert contro le derive del capitalismo selvaggio e dello sfruttamento colonialistico della nazioni più potenti a danno delle più deboli e iposviluppate. Un disco di denuncia geo-politica che non rinuncia però ai toni intimistici e struggenti del Wyatt più consapevole e maturo, artisticamente e umanamente.

 

Dondestan

Per ascoltare l'album successivo di Wyatt occorre attendere il 1991. Esce in quell'anno infatti “Dondestan”, sempre per la Rough Trade, disco che sulla scorta del precedente incede sulla linea dei testi ad alto contenuto sociale, qui con la intensissima collaborazione della moglie Alfreda. Robert suona tutti gli strumenti, tastiere, batteria e cornetta, ed esibisce la solita prodigiosa voce, al servizio di un impianto sonoro tendente alla scarnificazione dei toni, sino al raggiungimento di un nucleo intangibile di perfezione minimale. Già la magnifica Costa disegna la traiettoria di un lavoro calibrato su una concezione della musica sì come potente veicolo di tematiche umanitarie e di difesa dei diritti dei più deboli, ma anche come  suprema espressione dei sentimenti umani, portati a un livello di assoluta distanza dalle mode correnti e dalla rappresentazione di una società Robert Wyatt DONDESTANsempre più pervasa da istinti cannibaleschi e di mera e irriducibile sopraffazione verso l'altro da sé, verso le minoranze inermi, verso le diversità. Brani come The Sight Of The Wind, Workship, Catholic Architecture, Left On Man, Dondestan, sono somma esplicazione esemplificativa di ciò che abbiamo affermato: una virtuosa relazione tra testi e musica, tra contenuto e forma, tra tensione sociale e linea melodica morbidamente dipanantesi verso un'assoluta gradevolezza d'insieme.

 

Shleep

Per vedere il nuovo album di Wyatt bisogna attendere il 1997. E' la volta di “Shleep”, per la Hannibal Records. Nel frattempo, 1994, esce la compilation “Flotsam Jetsam”. Dunque, “Shleep”, dicevamo. Album grandissimo, secondo solo a parere di chi scrive al monumentale “Rock Bottom”. Nella line-up spiccano nomi eccellenti, in qualità di collaboratori: Brian Eno, Phil Manzanera, Paul Weller, ex Jam e leader degli Style Council, e la valentissima trombonista Annie Whitehead. Un disco, questo, che riporta i suoni entro le coordinante sonore più marcatamente poetiche afferenti in modo alquanto naturale al bagaglio culturale di Robert. Vi si possono ravvisare brani meravigliosi in quanto a impianto armonico, contrappuntati dalla solita impressionante voce del Nostro, quali la stupenda Maryan, sorta di sinuosa e struggente cavalcata sonica, sericamente rappresentabile, lungo i territori incantati del sentimento umano, in ciò che di più ineffabile e ammaliante riposa in esso. O la magnifica  Free Will And Testament, e ancora le meravigliose Alien, September The Ninth, Blues In Bob Minor, intenso e autoironico brano quest'ultimo, nel quale la chitarra del prode Manzanera maramaldeggia bellamente in irresistibili arpeggi blues. Un disco favoloso che segna il ritorno di Robert ai toni più intimistici e dall'impianto melodico magicamente modulato che riconosciamo come tratto fondamentale della sua musica, e fondativo di una ineguagliabile capacità affabulatrice, nata dalla virtuosa sinergia tra testo e linea melodica.

 

 

 

Elogio dell'imbrunire: il crepuscolo dorato di Wyatt. Cuckooland, Comicopera

Tra le collaborazioni di questo periodo, di Wyatt con altri artisti, ci piace segnalare tra le altre quella con taluni musicisti italiani, in particolare coi C.S.I, in omaggio ai quali canta in italiano Del Mondo, che comparirà nel suo successivo “Comicopera”, e con la brava Cristina Donà, in un cui brano, Goccia, suona la tromba. Nel 2003, per la Hannibal Records, vede la luce “Cuckooland”. Altro album di eccelso livello, esso segna un ritorno inequivocabile ad atmosfere più pop e tematiche impregnate di riferimenti all'amore.Vi suonano al suo fianco musicisti del calibro di David Gilmour, e i soliti Eno, Manzanera e Weller. La voce di Wyatt, su cui occorrerebbe scrivere un trattato a parte, è l'elemento che prepondera pur su un impianto sonoro strutturalmente eccellente. Già a partire da Just A Bit, e via via, scorrendo per terre di dorata melodia, Forest, Beware, lungo i serici filamenti di Cuckoo Madame e Raining In My Heart, a tessere trame di languida melanconia amorosa, a stendere suoni dall'aureo riflesso sopra gli arcobaleni spezzati del cuore. E la magnifica cover di Insensatez di Antonio Carlos Jobim, oltre alla stupenda e poetica Lullaby For Hamza e alla perla finale di La Anada Yalam. Grande album, invero, che ribadisce l'intramontabilità artistica di Wyatt, sempre in grado di mutare forma e stile, rimanendo. nell'aurea eccellenza.

 

L'occasione di vedere un film-documentario sulla vita di Robert, “Free will And Testament”, a cura della BBC, e ci si rituffa sull'ennesimo album del Nostro, “Comicopera” del 2007, per i tipi della Domino. Altro grande disco, il cui unico difetto, a nostro avviso, risiede nella durata forzatamente estesa e stiracchiata all'uopo, con qualche brano che non meriterebbe ricetto. L'album però è bello. Per quanto, tuttavia, si tratti di un'opera notevole, presenta una discrasia tra prima e seconda parte che salta all'orecchio. La prima parte è dedicata a canzoni d'amore, di un certo spessore poetico, invero; la seconda a canzoni di taglio politico-ideologico, e, se la qual cosa non stride affatto, in ragione di ciò, si viene a creare una disarmonia nell'insieme che ne inficia l'omogeneità di fondo. Brani, però, come Stay Tuned, Just As You Are, Beautiful Peace, Out Of The Blue, nella prima parte e, invece, Del Mondo, Cancion De Julieta, e, soprattutto, la prodigiosa Hasta Siempre Comandante, dedicata alla grandiosa figura del Che, quale supremo simbolo di libertà e di affermazione della sacrosanta volontà di emancipazione dal giogo delle dittature, sanciscono la grandezza di quest'album che rappresenta l'esempio vivente di quanto fresca sia ancora in Wyatt la vena creativa, e di quanto grande sia la sua volontà di non arrendersi alla ingiustizie e alla diseguaglianza che ancora regnano nel mondo contemporaneo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Un tentativo d'epilogo in forma di ala di farfalla.

Il 17 settembre del 2009, a Robert Wyatt viene conferita la laurea ad honorem dall'Università di Liegi, in ragione della universalità della musica da lui composta. Nell'ottobre del 2011, esce invece quello che allo stato dell'arte è il suo ultimo album, “For The Ghosts Within”,  per la Domino, coi fidati amici Gilad Atzmon, musicista israeliano, e Ros Stephen, bravissima violinista britannica. Diciamolo subito: l'album non rappresenta certamente un un opus magnum nella preziosa discografia del grande Wyatt, tuttavia non mancano spunti interessanti. In gran parte si tratta di una rilettura di classici diwyattrobert- altri grandi musicisti, quali: Round Midnight, What A Wonderful World, In A Sentimental Mood, da un lato; e dall'altro di brani della sua finissima produzione: Maryan, At Last I Am Free... 

 

Album affascinante ma non imprescindibile, che s'inserisce però nel contesto di un'opera sommamente rappresentativa, e diremmo eponima, di tutta la musica del secondo Novecento, per un artista che ha saputo splendidamente coniugare impegno sociale e bellezza, poesia e ragione, estatico abbandono ai sacri numi della geniale creatività e istinto inesausto alla lotta per la difesa dei più deboli; come dire il tentativo, nobile in sé, a prescindere dagli esiti della praxis del quotidiano, di  rappresentare artisticamente e contestualmente l'ala di una libellula in movimento sui fumi di una ciminiera, ed il poetico sciabordio delle onde ammantato dall'impercettibile canto delle Sirene.

 

Rocco Sapuppo

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