Migliora leggibilitàStampa
10 Giugno 2020

Rino Rocco Russo Il Tempo E L’Offesa: Uno Sguardo Sulla Poesia Di Rino Rocco Russo

2020

Rino Rocco Russo (1940-2010), Rino per gli amici, è stato poeta dalla finissima sensibilità e dalla vasta erudizione. Essenziale, nella vita come nell’arte poetica, ci lascia poche ma pregnanti sillogi di poesie, ciascuna delle quali, però, profondamente incisa nella mente di chi, come noi, lo conobbe e ammirò, eleggendolo a Maestro. Testimone di quella grande tradizione poetica siciliana (egli era, infatti, nativo di Caltagirone, Catania), che in poeti del calibro di Stefano D’Arrigo, Sebastiano Addamo e Bartolo Cattafi si sostanziava in versi scarnificati e levigati come ‘ossi di seppia’ (Montale essendo il suo indiscutibile nume tutelare). L’opera di Rino pareva scolpita nella pietra, affinché, nell’esercizio apotropaico della scrittura, desse l’illusione della durata ‘in saecula saeculorum’, ma, in realtà, scivolasse come un refolo di vento o un minuscolo diadema di acquerugiola sull’arenaria del pensiero di morire. Le poche note biografiche che lo riguardano, tramandate ai posteri senza memoria, ne dicono la grandezza di umile scrivente al servizio dell’assoluto della parola poetica: nato a Caltagirone, laureato in legge, per taluni anni dirigente d’azienda in alcune città dell’Italia centrale, direttore della Biblioteca Comunale del proprio luogo d’origine, amico del grande Carlo Levi, collaboratore per molti anni de “Il Messaggero”. Chi scrive lo conobbe allo spirare degli anni Ottanta del secolo XX, in occasione della presentazione del volume di versi “Tu Sei Alcibiade”, Rocco Sapuppo, Poesie, Edizioni Nadir, 1988. Da lì nacque una salda e severa amicizia, fatta di radi ma intensi incontri, culminanti immancabilmente in sontuose serate conviviali a base di buon vino e poesia. Rino, tanto taciturno in talune circostanze, diveniva di colpo un affabulatore instancabile, sciorinava un bagaglio culturale praticamente sconfinato e prezioso. In occasione dell’uscita del mio libro di racconti brevi “Requiem”, discutevamo della presentazione del volume che avrebbe dovuto curare lui, quando il male lo colse, come un ladro di essenza vitale, un losco figuro avvolto in lembi di nebbia, proditorio e ferale, a rubargli la pienezza dell’essere. Sopravvissuto all’assalto della malattia, alcuni anni dopo Rino s’involò verso il suo ciclo lunare, consegnato alla schiera dei poeti che mai non muoiono. Era il 2010. Ora, nel decennale della scomparsa, allievo di tanto magistero poetico e spirituale, mi preme ricordarne la figura e l’opera, sempre più convinto della giustezza del detto ‘flaubertiano’ secondo cui l’opera è tutto e l’uomo è nulla, che è severo e giusto paradigma della stessa condizione umana.

Con la splendida prefazione del grande Sebastiano Addamo, poeta e scrittore originario di Lentini (come l’incommensurabile filosofo Manlio Sgalambro) e assurto alle cronache letterarie con uno dei più grandi romanzi italiani del Novecento, “Il Giudizio Della Sera”, vide la luce nel 1989 per i tipi della Firenze Libri la raccolta poetica “Le Parole, Il Tempo E L’Offesa". Scrisse Addamo, a proposito del libro di Rino: “Se il pensiero può essere nemico, e nemica l’immaginazione dei mali, solitari al mondo, alle faccende, al sale del mondo, può sempre restare il sacrificio, il dolore, il palpito, protesi ad acquisire sensibilità e speranza.”

Il libro, ormai introvabile, come gli altri del poeta calatino, si struttura in tre parti: un proemio: Le Parole; Il Tempo E L’Offesa; Le Parole Dell’Offesa. In queste pagine, Russo condensa tutta la sua arte poetica, debitrice della poesia ermetica e del nume tutelare Eugenio Montale. Con un tocco personale di grande spessore artistico. Vi si possono leggere versi come: “Arcobaleni del mio amore/pietre sudate pesanti a maneggiare/vagheggio portarvi ad essere pareti e fondamenta del canto più ricco mai suonato. Vi ammiro, coccolo carezzevoli lampi di luce, verità e trionfi. Ho l’assoluto nelle mani”. La poesia di Rino è lavoro di scalpello celliniano, pura scultura della parola che nel marmo dell’idea scava la propria weltanschauung. “Balbetta la memoria: l’ultimo lenzuolo steso conserva nelle pieghe il sole/e tu posato su grondaie alte osservi il cielo che si appanna. Muore la luce che finisce e finisce il giorno”. Non vi è mai ridondanza, né arabesco baroccheggiante, né vuoto arzigogolo d’aria: è puro accadere all’interno del cerchio pauroso dell’esistere: “Tu riproponi del principio il primo fiato/ma lontano come un altro mondo/troppo esile misura rendi/a questo che non sa più guardare”.

Nel 1993, per le edizioni di Amadeus, esce “Dietro Il Sondato Nucleo”. Se possibile, rispetto alla precedente silloge, Russo riesce a toglier via quel residuo di polpa dall’osso poetico, riducendolo a mera rappresentazione scheletrica. I versi risuonano essenziali e nudi come da antri situati ad arcane profondità, e recitati da voci sciamaniche e foriere di sventura. Se la parola poetica ha una funzione, essa s’acconcia a raccontare il dolore del mondo, a farsene testimone per un tempo futuro in cui domineranno gli spettri di coloro che avremmo potuto essere. “Il velo non abita negli interni/ma cinge di pietà le stanche fondamenta dell’essenza: chi non ha sognato a lungo la certezza a lui non si rivela e sorge sempre la domanda – quando – chi riconosce il proprio immutato antecedente? Il velo cade e torniamo a mendicare”. Una poesia del non esserci come luogo mentale, di volontario esilio dalla parola stessa senza volontà di ritornare. “Se l’ultimo ritrova la pace nell’angoscia/l’ultimo si trova nel tempo della fine come una condanna – te absolvo – in fuga anche se torna dove lui è nato”.

Nel 1997, per i tipi dei Quaderni Dello Scettro, in edizione numerata e limitata a duecento copie, esce il poemetto in sette parti “Nessuno, Sono Anime”, con la prefazione del più grande dei poeti italiani odierni: Milo De Angelis. Scrive Milo: “Sette storie d’amore, sette poemetti in cui l’amore mostra una lesione. Il suo tempo è quello di un’alba livida, intrisa di presagi, un inverno che arranca verso la propria incompiuta primavera. Qui, più che in ogni scritto precedente, Rino Rocco Russo trova la sua vera andatura: passo rapido, incalzante e, insieme, punto laconico, dove le parole cessano di inanellarsi, scaraventate in un gelo che entra nella gola”. Qui, Rino raggiunge il suo zenit e insieme la parabola della discesa nell’Ade. Attraverso i prati d’asfodeli della parola poetante, egli penetra il senso più pieno della sua distanza, incolmabile, dal mondo delle gesta umane ordinarie. Ogni piccolo accadimento, fosse pure una passeggiata notturna con la donna amata, diviene occasione mitologica dell’assenza, pura perdita di senso, immobilità del cuore affondato nelle acque gelate del significante. “La solitudine annusava il tuo dolore e lo stanava dagli angoli più bui/io per te non aprivo porte, alzavo per giuoco i chiavistelli e rinchiudevo tutto. Restavamo soli insieme nella stanza a cercarci, io in forma di sogno tu di libertà...”; “Uscimmo, per provare cosa fossero strade e balaustre, padroni del tempo dicemmo e ne facciamo ancora scempio, ognuno nel suo mondo...”; “del vivere rimase quel brandello, non osai altro. Non ci fosse stata quella sera, avrei pensato al sogno, ma il tuo sorriso fermo come un paragone mi inchiodò al tempo”.

Della poesia di Rino Rocco Russo, a dieci anni dalla scomparsa, resta l’idea della severa grandezza, lo spirito nudo, il verso dal soffio superiore le cui ali, come ombre di tortore nel buio, sfiorano il cuore di chi resta a contemplare nel bianco di una pagina le mute forme dell’esistere.

Bibliografia essenziale:

Le parole, Il Tempo e L’offesa, Poesie, Firenze Libri, 1989;

Dietro Il Sondato Nucleo, Poesie, Amadeus, 1993;

Nessuno, Sono Anime, Poesie, Quaderni Dello Scettro, 1997.

Rocco Sapuppo
Inizio pagina