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21 Gennaio 2016 , ,

Glenn Frey L’ultimo volo di un angelo dalla faccia sporca.

2016

GlennFrey11                   1948 - 2016

 

 "It may be rainin', but there's a rainbow above you

You better let somebody love you, before it's too late"

 

Fa male, molto male riascoltare Desperado in queste ore e giorni che fanno seguito alla morte di Glenn Frey, il quale l'aveva scritta per gli Eagles con il compagno di canzoni Don Henley e la cantava spesso seduto al pianoforte alla fine dei concerti della band di Los Angeles. Dopo Lemmy dei Motorhead, leggende dell'hard rock, dopo Otis Clay, leggenda nera, nella settimana in cui cieli pieni di pioggia sovrastati da un arcobaleno hanno chiamato lassù prima David Bowie e poi, qualche giro di orologio dopo Dale Griffin (l'uomo che prima di finire sconfitto da nove anni di Alzheimer aveva colpito i tamburi alle spalle di Ian Hunter, in quel tripudio di glam rock, chitarre roventi e melodia bowiana che fu All the young dudes dei Mott The Hoople), è capitato tutto il peggio che potesse accadere alla grande famiglia Classic Rock. Dal suo palco, con la notizia del viaggio definitivo di David Bowie nello spazio ancora freschissima, Bruce Springsteen nello stesso show in cui ha cantato Rebel Rebel ha pronunciato queste parole: "Il tempo è li per prenderci, per avere la meglio su tutti noi. Abbiamo un tempo limitato per fare tutto ciò che abbiamo intenzione di fare, per lavorare, per prenderci cura delle nostre famiglie e per riuscire bene in qualcosa".

 

Dalla California con amore - Da Facebook con rancore

 

IMG_7517_zps7d4a93e4-2In un caldo pezzo reso magnificamente riflessivo dalla chitarra di Mick Taylor, i Rolling Stones cantavano "il tempo non aspetta nessuno e di certo non farà sconti a me". Accadeva una quarantina di anni fa, quando le rockstar scomparse erano alcuni jazzisti e i rock'n'rollers nati artisticamente negli anni Cinquanta. C'erano state alcune morti, diciamo così, "accidentali" o non prevedibili che avevano iniziato a creare dei miti. Ma nulla che cambiasse radicalmente i contorni di quelle scena così eccitante. Oggi no, oggi è diverso. Qui dei grandi roditori chiamati morte stanno iniziando ad attaccare le zampe dei tavoli su cui mangiamo ogni giorno. Talpe fameliche si stanno infilando nei cuscini del vecchio divano in velluto sul quale sprofondiamo per ascoltare ancora California Dreamin', oppure Hotel California, o semplicemente Californication in cerca di quello che siamo stati long time ago o solo una manciata di anni fa. Si recuperano le emozioni come si può.

 

Si scopre il nuovo ma assai spesso ci si rivolge al passato per nostalgia, per trovare conforto nella musica dei primi sussulti, per guardarci intorno e dire che in fondo siamo ancora tutti qui. Ma la verità è che se come dice Fossati "c'é un tempo perfetto per fare silenzio e guardare il passaggio del sole d'estate", quel tempo in cui si resta muti a contemplare la bellezza che ci avvolge, anche quella dei suoni, ce n'é anche un altro, di tempo, un po' più preoccupante, in cui "la gente si tende la mano". 

freyVista dal nostro osservatorio un po' affaticato e molto spaventato, la scena può sembrare quella di oggi, in cui attoniti ci guardiamo tutt'intorno e temiamo sia l'inizio di una grande morìa, poi prendiamo idealmente carta e penna (tutti quelli che hanno un cuore s'intende) e raccontiamo su Facebook ai dirimpettai della nostra passione quanto tutto ciò ci frastorna, quanto non eravamo preparati a questo. Perché le giovani stelle della preistoria dei nostri sogni morivano eroicamente sfracellate dentro a una Porsche o di overdose per alimentare tutto l'alimentabile. E ciò ha contribuito drammaticamente a scrivere pagine a loro modo piene di fascino e a stimolare la creatività di chi è arrivato dopo. 

 

Perché le stelle degli anni di mezzo hanno pensato bene di ammazzarcele davanti a un Dakota Residence come fossero obiettivi di guerra. E quello ha rinforzato l'amore creatosi nei decenni precedenti. Perché doveva accadere e ce lo siamo fatto stare bene con le forze del momento. Lo sgomento è figlio del fatto che ora la condanna arriva implacabile dalle carte d'identità, dai segni lasciati lentamente dai caotici e rischiosi giorni di vite Frey e Linda Ronstadtcondotte pensando che tutto fosse possibile. Arriva dal fatto che i nostri eroi, o chiamiamoli pure artisti preferiti, stanno normalmente, logicamente, prevedibilmente invecchiando. 

Ecco gli schieramenti, inopportuni e un bel po' fastidiosi. Ecco chi è affacciato al balcone, ecco chi osserva. Da un parte chi soffre e vuole esternarlo perché soffrire in tanti - e pubblicamente - solleva, dall'altra i castigatori di questa "aberrante" nuova abitudine di ricordare, condividere, piangere in un commovente abbraccio collettivo. Qui i fragili collezionisti di dischi e memorie, un passò più in là, baldanzosi e senza paura, "i poliziotti del cordoglio" (il copyright é dell'amico e collega Claudio Todesco, che sull'argomento ha dato il meglio di sè), quei fustigatori implacabili che appena muore il musicista che non gli interessa e che mai gli ha scosso l'anima sono pronti e reattivi, e giù sentenze e motivazioni che spieghino perché quel musicista, che poi è banalmente un essere umano, meritava se non di morire almeno di rimanere azzoppato per non calcare più un palco.

 

Chi scrive ha riposto le armi nel cassetto e si è stretto intorno alla sua personale sofferenza, cosa di cui non vergognarsi, causata dalla morte di uomini speciali. Perché prima Bowie (sul cui essere speciale c'é - ci dovrebbe essere - ben poco da argomentare) poi Glenn Frey, a proposito della cui storia mi è stato commissionato questo modesto contributo, hanno lasciato un gran vuoto nel cuore di milioni di 1297749971persone. Schiere di appassionati di scintillante pop britannico e schiere di devoti alla solare west coast music americana. Forse un unico grande mondo di fruitori bene educati ad apprezzare proposte diverse, oppure pubblici non sovrapponibili, e allora la macchia in termini numerici diventa ancora più grande e impressionante. Fatto sta che si è assistito a un'esplosione di testimonianze e ricordi. Tutti, e non è l'emozione del momento a farlo dire (non credo), hanno ascoltato Tequila Sunrise e Space Oddity, tutti avevano dentro quel certo repertorio più di quanto immaginassero. E' la musica che lascia una traccia, e chiacchiere non ce ne vogliono. Anzi, non ne vogliamo proprio sentire da chi è riuscito a parlare per Bowie  di "travestitismo fine a se stesso" e per gli Eagles di "band peggiore del pianeta".

 

Gli Eagles

 

Eagles 1Allora, parliamo degli Eagles che Frey mise insieme a inizio Settanta dopo che lui, Henley e gli altri ebbero a fare da gruppo di accompagnamento per Linda Ronstadt (nella quarta foto qui su a destra insieme a Glenn Frey) in locali come il Palomino e il Trobadour della Città degli Angeli o nel vicino Nevada. Quando arrivarono alla corte di Glyn Johns, che aveva prodotto gli Who e che dai quattro girovaghi infatuati del folk e del bluegrass seppe Eagles 2tirare fuori il meglio, erano giovani e avevano sbirciato la California dal buco della serratura. Partiti dal Michigan (Frey), dal Texas (Henley), dal Minnesota (Bernie Leadon) e dal Nebraska (Randy Meisner) si erano avvicinati allo Stato Dorato con temperamento e arroganza. Ce ne vuole per mescolare in una manciata di dischi, e sempre con grande efficacia, la musica dei pionieri, il rock duro delle cantine di Detroit e un rischiarante e avvolgente soul. Molta di questa sfrontatezza, senza nulla voler togliere agli altri, soprattutto a Henley che è stato ugualmente determinante nella stesura di un repertorio fantastico e milionario (dunque un po' invidiato, da stampa, colleghi e un certo pubblico avverso), ce l'aveva sulle spalle Glenn Frey, che era cresciuto nella stessa Motor City che aveva forgiato Iggy Pop e che lì aveva mosso i primi passi insieme a quel leone di Bob Seger. Sono roots, radici, che non lasciano indifferenti, e che rendono forti, speciali e unici. Frey fuse la sua attitudine di chitarrista alquanto tagliente ma al tempo stesso di amante degli arrangiamenti della Stax con l'elegante falsetto e l'altrettanto brillante vena compositiva di Don Henley, un amante della vocalità di Otis Redding

 

51Nc9ns3ayL._SX425_L'uno lasciò Bob Seger e John David Souther con i quali in una certa misura aveva fatto coppia, l'altro accettò a braccia larghe di stare dietro (alla batteria) ma in qualche modo anche davanti, perché quando hai quell'emissione vocale e sai comporre così bene ogni tanto scendi e ti prendi il microfono. Insieme furono gli Eagles, da lì fino a "Long Out Of Eden", il disco del 2007 fattosi attendere una vita, dopo liti, scioglimenti, ancora liti e riappacificazioni. Raccontare quel greatest hits col groppo alla gola non è facile, e longpoi basta maneggiare quelle canzoni, una schiera infinita di successi (da The best of my love a I can't tell you why, da One of these nights a How long che solo pochi anni fa sembrò riavvolgere il nastro e riportare, dopo mille vicissitudini, cambi di organico e rivoluzioni nel suono, ai primi giorni in seno all'etichetta Asylum), per capire che posizione hanno e hanno meritato gli Eagles. 

 

La carriera solista

 

Direi qualcosa, perché è giusto, sul Glenn Frey solista (cinque album in studio ed un live in 30 anni, dall'esordio nel 1982 di "No Fun Aloud" all'ultimo "After Hours" del 2012) che in tanti anni si è diviso in egual misura tra le sue tante passioni musicali già esibite nel gruppo titolatissimo da cui proveniva quando ha deciso di fare da solo, tre anni dopo quel Glenn+Frey+No+Fun+Aloud+439055"The long run" che mise in gabbia a lungo le Aquile. Si contano pregevoli arrangiamenti in chiave black nei primi due dischi d'inizio Ottanta, quando prese a collaborare in modo serrato col compare Jack Tempchin, poi ancora quell'intenzione con "Soul Searching", lambendo il grande pop-rock venato di blues e destinato alle colonne sonore (You belong to the city e Smuggler's blues servirono alla perfezione alcuni episodi di "Miami Vice"). La coppia Frey-Tempchin seppe avvicinarsi ai livelli degli Eagles in più di un episodio, disegnando ballads raffinatissime a cavallo tra west coast, Memphis e tex-mex come Let's go home (un cocktail tra I can't tell you why e lo stile di Al Green) e Lover's moon. Frey era tanto efficace alla chitarra elettrica (l'esatto ponte tra Leadon e Joe Walsh) quanto alle tastiere (prediligeva il suono pastoso e caldo del Fender Rhodes) e se si entra nel merito dell'interpretazione vocale, vanno scomodati i classici degli Eagles (Take It Easy, Tequila Sunrise, Lyin’ Eyes, Heartache Tonight, Peaceful Easy Feeling, Already Gone, New Kid In Town) e tanti eleganti interpreti della migliore tradizione soul.

 

soulEra un bianco che sapeva tingere di nero la sua musica senza strafare, lasciando che ironia e rock'n'roll rimanessero sempre in superficie come accadeva in episodi come Better in the U.S.A. e Livin' right, che restavano ancorati alle stesse logiche da Top 40 che negli anni Ottanta avevano fatto grandi e popolarissimi Huey Lewis and the News. Qualità e numeri in quantità. Part of you, part of me, la canzone scritta per la colonna sonora del film "Thelma & Louise", fuga, ribellione e pistole come nei migliori copioni dei primi Eagles, afterresta la sua pennata più felice perché è tanto intrisa del meglio che il gruppo di Los Angeles ha prodotto quanto splendente di una bellezza tutta autonoma e marcatamente Frey, nell'incedere come nelle armonie. Meno a fuoco ed efficace nella sua unica uscita da crooner moderno, alle prese con canzoni di Best & Watson (For sentimental reasons), Bacharach (The look of love) e Randy Newman (Same girl) in "After Hours", realizzato ben dopo il grande sforzo di riportare in studio la sua band storica con moltissime canzoni nuove (il doppio Long out of eden), Frey si è accomiatato dal suo pubblico lasciando un tenue senso di incompletezza. Peccato.

 

Perdendo Frey...

 

The_Eagles_-_The_EaglesPerdendo Frey non si può non lasciar correre il pensiero dolente a Warren Zevon, a suo modo un Eagles come lo furono Jackson Browne e John David Souther, tutti pistoleri romantici protagonisti di quella splendida ondata di talenti che arrivò sulla costa ovest faccia al Pacifico. Erano una gang, avevano capelli meravigliosi, alcuni portavano baffi cinematografici, sapevano cantare come i Beach Boys, armonizzare come i Beatles, orchestravano che era una delizia (Wasted Time, The last resort) e componevano come se il mare di Malibu non si fermasse sulla soglia delle loro case ma spingesse fino ai loro letti e alle loro caviglie, chiedendo di essere portato un po' ovunque, su altre autostrade lontane da lì, in altre radio pronte a raccogliere tanto talento, emozione e bellezza. 

desperadoZevon, ormai vicino alla morte che un tumore ai polmoni aveva infiocchettato per lui, disse a David Letterman e al suo pubblico, in un ultimo straziante saluto pubblico, "enjoy every sandwich".

 

Sapersi godere ogni panino preparato in fretta sembra sempre di più una parola d'ordine ora che si vede tanta sfuggevolezza intorno. Parole che si abbinano al senso di quanto cantavano i versi di Desperado raccolti all'inizio di questo pezzo e alle parole di Bruce Springsteen sistemate poco sotto. C'é un innegabile senso di temporaneità che oggi più che Hotel-California_Eagles-album-covermai avvolge quel mondo sognato che tanto ci ha fatto sognare e che oggi dispensa forse più dolori che capolavori. 

Farsene una ragione senza aver paura di cantare l'amore per tutto ciò, e affrontare le prossime stagioni e i prossimi concerti di tanti protagonisti di primissima fascia che ci stanno a cuore, dovrebbe essere da domani oltre che necessità quasi fisica, istinto, anche un dovere, perché è più che palese che ci troviamo in un tratto di strada dove si incontrano facce che potremmo non rivedere mai più. Una inevitabile corsa contro il tempo, dopo tanto festoso e appassionato sfrecciare sulla corsia di sorpasso.       

 

Ermanno Labianca

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